Quanti significati, quanti colori può avere un sogno? Probabilmente infiniti, ma ciò che è certo è che volente o nolente siamo tutti sognatori e che i sogni spesso sono rivelatori di idee, speranze, paure, progetti. La cantante e compositrice Maria Pia De Vito nel suo Dreamers Live, versione appunto live dell’omonimo disco Dreamers (2020/Jando Music/Via Veneto Jazz), registrata a Pomigliano Jazz con il pianista Julian Oliver Mazzariello, il contrabbassista Enzo Pietropaoli e il batterista Alessandro Paternesi, dà letteralmente voce ai sogni di alcuni songwriter particolarmente attivi negli anni Sessanta e Settanta. Anche solo i nomi degli autori dei pezzi contenuti in Dreamers Live ci fa comprendere con chiarezza perché parliamo di sognatori: Joni Mitchell, Bob Dylan, Tom Waits, Paul Simon, David Crosby, Billy Joel. Tutti loro sognarono di cambiare il mondo, mossero critiche al sistema, alla morale, alla politica corrente e donarono al mondo una visione inedita della vita, sognarono il cosiddetto “mondo migliore” consegnandoci quel dono prezioso e inestimabile che è la speranza.
Il disco è un affascinante viaggio attraverso queste canzoni che ancora oggi ci parlano con parole vive e saldamente ancorate alla contemporaneità. Maria Pia De Vito, con l’esuberante creatività che la contraddistingue e che da sempre si connota nel favorire la prossimità dei linguaggi musicali, ci offre una rilettura personale ed efficacissima di queste canzoni, le riporta sulla scena odierna consegnandocele con abiti nuovi e particolarmente vivaci, intensi, dinamici, acuti, tanto che non possiamo a fare a meno di sentirle nostre, così come tutto ciò che parla una lingua universale. La formazione con cui la cantante affronta questa esplorazione è compatta, saldamente legata da un’intesa che la stessa De Vito definisce “telepatica”, in grado di calibrare perfettamente gli spazi, i respiri, le dinamiche, fino a diventare un’unica voce corale dalle infinite inflessioni.
Di tutto questo abbiamo parlato con Maria Pia De vito in questa intervista.
Paola Parri: Dreamers Live, il tuo lavoro discografico realizzato con il pianista Julian Oliver Mazzariello, il contrabbassista Enzo Pietropaoli e il batterista Alessandro Paternesi è un lavoro molto affascinante che ti cattura sin dal titolo. Chi sono questi Dreamers?
Maria Pia De Vito: I Dreamers in questo caso musicale sono degli autori musicali che nel tempo hanno saputo esprimere una visione del mondo e una critica di quello che non andava nell’attualità. Parliamo di musicisti che hanno iniziato dalla fine degli anni Sessanta in poi, di grandi nomi come Joni Mitchell, Bob Dylan, Tom Waits, Paul Simon, David Crosby, Billy Joel, che hanno come loro cifra peculiare questa capacità di essere lirici e di parlare del privato, offrendosi dunque anche a un’osservazione di sé, delle proprie fragilità, ma contemporaneamente anche di dire cosa non funziona nel mondo, quindi suggerire qualcosa di migliore. Questi sono i dreamers in musica, ma se pensiamo a quali sono stati i grandi dreamers nella storia penso a Martin Luther King. “I have e dream”, questo è per me il concetto base di questo Dreamers.
P.P.: Qual è stato il motore che ti ha spinta a questa esplorazione?
MPDV: Questo progetto è stato concepito prima della pandemia ed era un momento in cui il mondo non mi sembrava assolutamente in buona forma: grandi bulli in politica, ritorni di sovranismi e soprattutto questa crescente ondata di fake news, di un uso sbiellato dei social, per cui questa grande comunità virtuale ha cominciato a diventare litigiosissima con tutte le conseguenze che sappiamo, conseguenze politiche, ma soprattutto con ricadute sul nostro modo di vivere, sui giovani, sulle capacità di attenzione, di concentrazione, di sentire l’interiorità, invece di essere sempre esposti a una continua competizione. Siamo diventati, come dice un grande filosofo coreano: “La società della fretta e della stanchezza”. Per questo ero proprio arrabbiata e quindi avevo voglia di guardare il positivo, partendo per esempio dalla mia amata Joni Mitchell, con cui ho ingaggiato un progetto che poi ha viaggiato incredibilmente per quindici anni. Ho preso quindi i suoi brani, Be cool, per esempio, che è un gioco da imparare. Imparare a be cool è imparare a fare finta che vada sempre tutto bene, imparare a non esporti in un mondo in cui se fai vedere la tua fragilità ti mangia, quindi in un mondo ipocrita tu be cool, non ti esporre, non allarmare i potenti. Rispetto al fatto che Joni Mitchell è una che ha squadernato nel suo repertorio tutta la sua vita, anche privata, esponendosi a critiche incredibili, capisci che è provocatorio come tipo di titolo. Oppure ho scelto il suo meraviglioso Chinese Café, che parla di una Joni di mezza età che dice “eravamo figli del rock’n roll, ora i nostri figli hanno la nostra età di quando facevamo i figli del rock’n roll, però c’è qualcosa che non cambia, che nulla dura a lungo, perché in ogni epoca ci sono degli short sighted business men, cioè dei business men dalla vista corta che rovinano sempre tutto, cioè che mettono il profitto al posto del bene comune. E così ho cominciato a cercare e non poteva ovviamente non venirmi in mente Bob Dylan, che è stato il menestrello di una generazione, produttore di formidabili inni generazionali quali Times They are changing, che ho messo nel disco, ma anche Blowin’ in the wind, o A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Se pensiamo alle decine di inni di Dylan capiamo che è stato davvero un faro importante per una certa generazione e per quelle a venire. Sempre di Bob Dylan ho scelto per il disco Simple twist of fate, che invece parla di una storia d’amore sbiellata, un’esperienza che forse ognuno di noi ha fatto, quando non si sa bene perché si sta in una situazione, oppure non gli dà importanza fino a quando non la perde.
P.P.: Questi songwriter che sono stati particolarmente attivi negli anni 60 e 70 sappiamo che non hanno svolto un ruolo esclusivamente musicale, ma anche sociale, quando non addirittura politico. Cosa ci hanno lasciato a tuo parere? Esiste qualcuno che in qualche modo riesca ad emulare o a riformulare questo ruolo nella società odierna?
MPDV: Intanto voglio puntualizzare che queste presenze, ad esempio Paul Simon, anche se in tono meno evidente rispetto agli altri, hanno continuato negli anni. L’ultimo disco di Bob Dylan è un colpo al cuore. Questi moti si sono rinnovati nel tempo. Dopo il ’68 c’è stato il ’77, nel tempo ci sono queste ondate di ribellione giovanile che comunque piano piano ci hanno fatto fare dei passi avanti sui temi dei diritti civili, pur continuando a combattere sempre con gli eterni ritorni del lato opposto. Chi avrebbe mai immaginato certi sovranismi, certi fascismi di ritorno! Pensa come sta messo il Brasile in questo momento… Considera che il Brasile, che ha un aeroporto intitolato a Tom Jobim, quando rientrarono tanti esiliati alla fine della dittatura, cantavano tutti O Bêbado E A Equilibrista dentro all’aeroporto e per il popolo brasiliano ci sono dei personaggi come Chico Buarque che hanno rappresentato qualcosa di importante, però anche loro purtroppo grazie al lato orrendo dei social talvolta vengono criticati aspramente e aggrediti. Quando c’è una manipolazione dell’informazione le fasce meno colte sono più facilmente preda di questo processo demolitorio. Quindi come vedi questi discorsi sono sempre importanti. Oggi sono tanti i personaggi che dicono e fanno cose importanti, a volte sono addirittura, termine che mi fa orrore, degli influencer, però magari qualcuno di questi usa la propria visibilità per dire qualcosa di apprezzabile. Sono tempi tumultuosi.
P.P.: Prima hai detto che eri molto arrabbiata. La situazione non è molto migliorata non credi?
MPDV: Più che altro questo scossone della pandemia è stato rivelatorio di molte cose, ha fatto venire certi nodi al pettine molto velocemente e per qualche attimo ci ha indotti a fare un esame anche non voluto del proprio sé, della propria coscienza. Abbiamo detto che ne saremmo usciti migliori e purtroppo non è così. Chi ha le mandibole forti, chi è abituato al potere lo usa in maniera ancora più sfrontata oggi perché tutti hanno perso qualcosa e chi riguadagna terreno è chi è abituato a manipolare. È un momento molto delicato questo.
P.P.: Mi offri il gancio per la prossima domanda. Se parliamo di ciò che è venuto fuori dalla pandemia, io penso spesso alla fragilità individuale, ma anche alla fragilità collettiva, all’evidenziazione delle diseguaglianze sociali. C’è un bellissimo pezzo di David Crosby che hai inserito nel disco The Lee Shore in cui si parla di un desiderio di fuga, allora era l’epoca del Vietnam, che è qualcosa di estremamente attuale. Chi non sogna di fuggire: dalla fame, da una guerra, dalla violenza, da una brutta situazione come può essere stata per tutti noi ad esempio la pandemia? Da cosa dobbiamo fuggire oggi?
MPDV: Ci sarebbe un lungo elenco di cose, ma secondo me la cosa fondamentale da cui dovremmo fuggire è l’illusione che noi ci possiamo salvare da soli. Tutti fuggono cercando il proprio rifugio, il proprio orticello, il proprio privilegio mentre gli altri affogano. Ieri c’è stata la giornata della memoria e io ho evitato i social per l’intera giornata. Coltivare la memoria, ricordare la Shoah significa anche ricordarsi che l’essere umano ha potuto essere così disumano da uccidere sistematicamente, ma non è altrettanto disumano per conservare i nostri equilibri politici lasciar morire la gente nel gelo ai confini dell’Europa dell’Est, o rimandare la gente nei lager libici laddove si sta facendo esattamente quello che è stato fatto agli Ebrei? E ancora, se tu non vaccini tutto il mondo, se non fai arrivare fino all’ultimo luogo del mondo la possibilità di fronteggiare la pandemia, ci ritornerà con le varianti. L’industria pensa al privilegio, alle tasche piene e si taglia fuori una grande parte del mondo e tu pensi che ti puoi salvare mentre il resto del mondo va alla malora? Come diceva Martin Luther King, quello che succede all’ultima delle persone succede a me, anche se io non lo voglio vedere.
P.P.: Quando un autore ci consegna una canzone questa è già un’entità ben definita, ha una sua struttura musicale, un suo testo, veicola un messaggio forte. Naturalmente appropriarsene significa dare una nuova identità al pezzo, un’impronta artistica soggettiva. Come hai “maneggiato” questo materiale?
MPDV: Hai detto una cosa importante. La forma canzone è quel miracolino da 3 minuti che dal ‘500 in poi è un fenomeno che entra ed esce dalle nostre vite, ci suscita emozioni incredibili. Negli ultimi anni sono molto sensibile al testo, al racconto, quindi sicuramente un filo è stato questo, però giustamente nel mio mood da jazzista il filo è questo e scelgo brani che mi facciano “partire la brocca”: armonicamente, melodicamente ci deve essere qualcosa che mi aggancia. Il passo successivo, per rispetto all’autore e per rispetto a me stessa, è non ripetere esattamente ciò che è stato fatto, ma inquadrarlo in una cornice diversa, che può essere un colore, una struttura aperta, in modo che ci sia spazio per essere personali, per raccontare la storia a proprio modo e in qualche modo onorare la composizione da cui si è partiti, improvvisando in una maniera che sia tematica, che sia un allargamento di quella composizione. The Lee Shore, che è così bello sognante e pieno di spazi l’abbiamo semplicemente cambiato in un 3/4, oppure Be Cool che è un blues a cui abbiamo dato un tempo un po’ afro, un 12 in cui la forma musicale segue proprio l’incalzare delle parole in una forma aperta, a tratti asimmetrica, quindi diventa un act, più che una canzone con strofa e via dicendo. Quindi è stato un lavoro possibile perché la formazione con Julian, Enzo e Alessandro è assolutamente telepatica. Con Julian ed Enzo abbiamo suonato dal 2008 fino al 2019. Sul “progetto Joni Mitchell” Julian ha sostituito Danilo Rea che era il pianista originale del gruppo. Abbiamo suonato per quindici anni in trio e il grande giornalista Ted Panken di Downbeat, che ci recensì per una carta bianca che feci a Umbria Jazz nel 2017, disse di questo trio che “thinks as one”, cioè che pensa come uno, perché siamo quasi telepatici quando suoniamo insieme. Quindi, di fatto, quando abbiamo messo insieme questo progetto in realtà abbiamo provato molto, perché volevamo che venisse fuori dal suonare la soluzione musicale, non tanto un arrangiamento dalla partitura. Siamo partiti dal suonare insieme per creare questa partitura, il colore, il frame, il mood del brano, e anche dal punto di vista del groove Alessandro Paternesi è meraviglioso, perché è il contrario del batterista che si impone, è capace di fortissimo groove, ma è sempre in ascolto. Quindi è una formazione fatata. Anche per questo motivo poi ho deciso, a solamente un anno dall’uscita del disco originale, di dare alle stampe a Musica Jazz, che mi ha offerto l’opportunità, questo live a Pomigliano Jazz del 30 settembre 2020. Il suono era bellissimo, abbiamo suonato con grande tranquillità e quindi quando l’ho sentito era da prendere e pubblicare senza alcun ritocco. Mi è piaciuto illuminare questo stato di grazia e poi siamo stati chiusi tutto l’anno quindi non abbiamo potuto portarlo tanto in giro.
P.P.: Il disco si chiude con And so it goes di Billy Joel, quindi… l’amore. Un tema perfetto per chiudere il discorso. È sempre attuale l’amore?
MPDV: Senza l’amore, in tutte le sue accezioni, siamo morti. È la vera forza che tiene in piedi il pianeta. Il pezzo l’ho scoperto durante la pandemia, perché l’ho sentito suonare da Fred Hersch, nei suoi live da casa e quando ho sentito questo brano sono caduta dalla sedia perché non lo conoscevo. Mi sono detta che era un inno, ci ho sentito subito qualcosa di sacro, poi sono andata a cercare il testo e ho trovato “In every heart there is a room/A sanctuary…”, un santuario… Avevo ragione! Parlava di qualcosa di sacro. La cosa bella di quel brano, che ho inserito immediatamente nel disco, è che parla della disponibilità ad amare di nuovo, anche dopo che il cuore ti è stato fatto a pezzettini. Tu metti a disposizione questo tuo spazio interiore sacro e prezioso perché possa essere scassato un’altra volta. Non stai nell’amore se non sei disponibile al rischio perché non sei disponibile all’amore stesso. Questo secondo me con Dreamers c’entra moltissimo.
P.P.: La Maria Pia De Vito dreamer cosa sogna oggi?
MPDV: Io sogno che si riaprano tutte le porte, che si ricominci a viaggiare, di tornare a suonare in Europa e in Brasile, sogno una circolazione della cultura e dell’arte finalmente libera, sogno che le persone si accorgano che la gabbia è aperta e si strappino dal divano, che vadano al cinema, a teatro, a un concerto, perché è un rito collettivo, è lo stare insieme, è vedere da vicino l’arte nell’atto di farsi che ci fa bene e ci può fare uscire da questo torpore. Adesso siamo in un momento di lockdown autoimposto se ci pensi. Tante cose sono aperte, ma la gente sta a casa perché ha paura e resta in questo torpore. Il mio sogno è che si esca da questo torpore e si rientri nell’avventura.