
Una grandissima produzione e un successo straordinario quello della serie TV Mare fuori che ci ha narrato la fragilità, il dramma umano, le vicende e il desiderio di riscatto dei ragazzi dell’IPM di Napoli. A decretare il successo di questa produzione, oltre alla regia e alle ottime interpretazioni dei protagonisti, è stata sicuramente la musica. La colonna sonora, firmata dal compositore Stefano Lentini, ha segnato, in un caleidoscopico universo sonoro, i momenti principali delle vicende narrate nelle immagini, ha creato un ambiente denso di suggestioni destinate a sedimentare nell’immaginario collettivo e a creare emozione. Nella prima stagione della serie il pianoforte è stato protagonista, non solo nei due personaggi principali, Filippo e Nadiza, ma anche attraverso le splendide composizioni pianistiche di Stefano Lentini che sono state interpretate al pianoforte da Gilda Buttà. Stefano Lentini e Gilda Buttà saranno ospiti a Piano City Milano proprio con un evento dedicato alla colonna sonora di Mare fuori che si terrà il 21 maggio alle 19 al Volvo Studio di Milano.
Li abbiamo raggiunti telefonicamente e questo è quanto ci hanno raccontato a proposito della composizione e dell’interpretazione di questa colonna sonora.
Stefano Lentini
Paola Parri: A Piano City Milano sarai protagonista di un evento insieme a Gilda Buttà in cui parlerai della colonna sonora di Mare Fuori, una serie di straordinario successo e ascolteremo al pianoforte alcuni brani. Come hai lavorato al progetto e quali sono state le suggestioni principali che ti hanno guidato nella stesura delle partiture?
Stefano Lentini: Devo dire che la chiave di volta di tutto il lavoro è stata sicuramente una grandissima libertà, perché con il regista subito ci siamo detti di voler evitare qualsiasi stilema tipico della colonna sonora, evitare il colore a volte un po’ ridondante di certe musiche, per cui ci siamo semplicemente dati carta bianca su questo. Questo mi ha aperto un grandissimo orizzonte di possibilità perché ho iniziato a confrontarmi con tutto il materiale possibile. Per questo è successo qualcosa di molto variegato in questa colonna sonora, che va dalla musica sacra a quella pianistica classica, alla musica pop. Insomma, devo dirti che la libertà e l’indipendenza artistica ci hanno aperto le porte per una ricerca molto fruttuosa.
P.P.: Ecco, proprio a proposito di questa policromia, di questa colonna sonora in cui come tu hai ribadito ci sono moltissime influenze, moltissime voci, colori diversi, è corretto pensare appunto che ad ognuna di queste voci, ad ognuno di questi colori corrisponda poi la descrizione sonora delle varie emozioni che attraversano poi la narrazione in sceneggiatura?
S.L.: Sì. Il rapporto tra colore e musica per alcuni è molto chiaro, per altri è solo puramente metaforico. Devo dirti che io personalmente lo sento molto in relazione all’immagine. Spesso lavoro proprio sulla musica per cercare di entrare nel colore di quello che sto vedendo, proprio nel colore fisico. La fotografia, l’immagine, anche il movimento, voglio sentire una connessione tra il suono e queste immagini. Ovviamente non è sempre così. Su Mare fuori parte del lavoro è iniziato sulla sceneggiatura, parte è continuato sul montaggio e parte poi sul progetto finito, perché poi per la seconda stagione è proseguito un lavoro già iniziato, su una strada già aperta. Per cui è successo un po’ di tutto dentro questa costruzione e sicuramente l’emozione, la tipicità dell’emozione è connessa a un tipo di colore musicale. Per esempio abbiamo utilizzato il coro di Bambini, proprio per andare a connettere la purezza quasi universale dell’anima di questi uomini, bambini, ragazzi, ai loro drammi più profondi. Una sorta di contrasto tra qualcosa di estremamente grave e drammatico con qualcosa di più etereo. Con queste piccole connessioni siamo riusciti a mettere punti su tutta una serie di elementi della narrazione.
P.P.: Ci sono due elementi che almeno al mio ascolto si fanno personaggio in queste partiture e una è il mare e un’altra è Napoli. In che modo hai introdotto questi elementi?
S.L.: Devo dirti che la mia prima sensazione dopo l’arrivo della sceneggiatura si è concentrata completamente sull’interno dell’IPM, più che Napoli. Quello che ho sentito io da subito è stata la forza estenuante, drammatica, occlusiva delle mura del carcere. Ovviamente un carcere campano, ispirato al carcere reale di Nisida, dentro Napoli, ma sicuramente queste mura in qualche modo sono state il primo elemento. Poi Napoli è entrata immediatamente come secondo luogo, appunto per la provenienza di ragazzi, per le storie ed è stato sicuramente un impatto molto forte anche per via dei testi che abbiamo utilizzato e realizzato.
P.P.: Parliamo di pianoforte. Nella prima stagione il pianoforte è protagonista assoluto in un certo senso. I due personaggi principali, Filippo e Nadiza, sono appunto protagonisti e quello che colpisce è che sono caratteri antitetici sia a livello di personaggio sia come formazione musicale. Suonano entrambi ma provengono da ambienti e da formazioni diverse. Vuoi dirci qualcosa a proposito di queste due caratterizzazioni musicali?
S.L: Sono due personaggi esattamente opposti per formazione e per talento. Quello che doveva essere chiaro da subito era che Filippo, di buona famiglia, colto e con una formazione accademica, non aveva però quel talento innato verso la musica per cui tutto il suo talento, il suo virtuosismo era frutto della tecnica e dello studio. Prima di incontrare Nadiza, Filippo è sicuro di sé, è un virtuoso, è un pianista, ha di fronte a sé una grande carriera. L’incontro con Nadiza è totalmente destabilizzante perché Nadiza è una zingara, vive per strada, non ha nessuna conoscenza o consapevolezza di quello che fa il pianoforte ma lo fa magicamente e magicamente al pianoforte riesce a ricostruire ambientazioni sonore, brani, anche con grande tecnica, da autodidatta. L’incontro con Nadiza distrugge la consapevolezza di Filippo che inizialmente quasi la odia e poi forse quando inizia ad amarla si rende conto che lo scettro del pianista deve passare a lei e qui nasce la relazione magica tra i due dove in qualche modo si incontrano e si confrontano sulla tastiera.
P.P.: Forse può essere anche visto come una metafora di un messaggio che la musica in qualche modo l’unisce e ha questo ruolo un po’ catartico ma anche sociale, molto di aggregazione sociale. Ecco, una curiosità, come si lavora il pianoforte con attori che non sono pianisti?
S.L.: Allora, abbiamo lavorato diciamo su due piani, il primo è quello della formazione posturale, per cui abbiamo creato una sorta di corso insieme ad un maestro di pianoforte sulla postura del pianista. Cioè quello che mi interessava era che ad esempio Filippo di fronte al pianoforte al di là delle mani, del movimento delle mani, sembrasse davvero un pianista, per cui avesse quella naturalezza, quel movimento delle spalle e anche quel movimento delle braccia a tempo e sul registro della tastiera corretto. Infatti se per esempio guardi la prima scena del suo concerto vedrai che c’è una grande sincronizzazione su cui abbiamo lavorato tantissimo e poi ovviamente subentra il discorso delle mani. Anche qui c’è stato un grande lavoro fatto con i manisti per cui un casting proprio sulle mani per trovare dei pianisti che avessero la conformazione sia del colore della pelle sia proprio anche della dimensione delle vene sulle mani, il tipo di spigolosità, morbidezza secondo il tipo di personaggio. Per cui abbiamo scelto due pianisti in grado quindi di eseguire quei brani per davvero e poi sono stati vestiti dal braccio in sù come gli attori e quindi poi a livello di regia è stato montato la ripresa del manista che segue il brano con la ripresa dell’attore che fa finta di suonare su un pianoforte tra l’altro che abbiamo mutato per cui il tasto scendeva a fondo ma senza produrre alcun suono. Per non disturbare le recitazioni con suoni a caso.
P.P.: Però sappiamo che in realtà suonare è Gilda Buttà, è una cosa che non si sa molto spesso, chi è che veramente suona in moltissimi film dedicati al pianoforte o che vedono come protagonisti dei personaggi che sono pianisti. Come avete collaborato con Gilda? Come avete lavorato insieme su queste partiture e poi sull’interpretazione?
S.L.: Con Gilda lavoriamo da dieci anni insieme e abbiamo registrato diverse colonne sonore insieme per cui in qualche modo abbiamo stabilito ormai una sorta di comunicazione che va oltre la carta. Gilda è una persona che sa cosa io voglio senza che glielo dica e io so tendenzialmente come lei eseguirà qualcosa. Ovviamente il suo modo di suonare per me è una sorta di elemento centrale della colonna sonora perché conosco già in linea di massima, già in fase di scrittura, quale sarà la resa. Per cui in realtà quando andiamo in studio è tutto molto semplice. Ovviamente le fornisco le parti qualche giorno prima, se le guarda, ci vediamo in studio, parliamo, le spiego magari dei tratti salienti della storia per farle entrare dentro il tipo di narrazione, il tipo di invenzione, ma poi parla solo la musica e poi da lì il processo è quasi puramente musicale in studio. Parliamo insomma del tipo di esecuzioni, dei rallentando, dei rubati, di questioni un po’ più tecniche, ma sempre rimanendo su un piano molto musicale, molto di esecuzione pura.
P.P: So che tu sei un polistrumentista Stefano, suoni più strumenti. Una domanda, quando componi, siccome moltissimi compositori lo fanno al pianoforte, te come ti muovi?
S.L.: Gli strumenti principali per me sono la chitarra e il pianoforte. Mi muovo fondamentalmente su questi due, per cui ovviamente ho un piano digitale collegato a tutto il sistema di programmazione in computer e da lì posso gestire tutti i suoni della library e quindi già registrare con quello oppure comporre, lavorare, usare il pianoforte come strumento di tutti gli strumenti. Poi in altri casi scrivo al pianoforte, al pianoforte a coda ho un vecchio Petrof che amo tantissimo, oppure la chitarra quando il brano mi chiama, mi porta, quando la scrittura mi porta da quelle parti. Comunque fondamentalmente lo strumento padre è quasi sempre il pianoforte.
P.P.: Un’ultima domanda molto ma molto generale, una tua opinione sulla musica al cinema o in tv, quindi per queste produzioni o televisive o cinematografiche. Questa musica racconta o suggerisce? Qual è secondo te la funzione principale?
S.L.: Ah beh, esistono sicuramente funzioni diverse per come viene utilizzata la musica e a me piace tantissimo quando racconta qualcosa che non viene detto dalla parola. Quando la musica riesce ad aggiungere significati alla scena che non sono narrati, secondo me succede sempre qualcosa di bello. A volte è anche sbagliato, attenzione, perché poi la musica può magari insinuare un sentimento di insicurezza in una scena che invece dovrebbe trasmettere altro. Per cui è un’arma a doppio taglio, da usare con molta cautela e anche rispetto, però ha questo potenziale di suggerire come dici tu altre voci.
Gilda Buttà
Paola Parri: Parliamo della musica di Mare fuori, dal momento che presenterai questa musica proprio a Piano City Milano con il compositore Stefano Lentini. Sveliamo ai nostri lettori infatti che a suonare il pianoforte nelle scene della serie sei proprio tu. Come è iniziata questa avventura? Come hai lavorato con Stefano Lentini?
Gilda Buttà: Io e Stefano già ci conoscevamo prima di Mare fuori, perché per lui avevo lavorato in Braccialetti Rossi e La Porta Rossa. Quindi ormai, insomma, cominciavamo a conoscerci. Quindi poi ad un certo punto è saltato fuori con questo Mare fuori che… sai, la prima stagione è la prima stagione, non sai mai cosa t’aspetta. E mi aveva raccontato la storia, cioè la storia di questo ragazzo, che è un talento che studiava pianoforte classico. Mi racconta in parte, un briciolo, giusto per dirmi, ok, sappi che chi suonerà poi nell’immagine è questa cosa qui. E come fa sempre lui che non si risparmia mai, arrivavano sempre valanghe di partiture. Cioè ormai, io dicevo sempre stiamo andando a kili, cioè ormai c’era una stamperia dentro casa. E io cominciavo a guardare queste partiture, dove c’è qualcosa che apparentemente è semplice, apparentemente suona semplice, per cui tutti possono pensare che sia una cosa che si suona tranquillamente. Ma non è così, c’è sempre il trabocchetto, cioè la musica di Stefano arriva a tutti, ma è meno semplice di quanto possa sembrare. C’è un pensiero molto profondo in quello che scrive. Anche perché ci siamo confrontati mille volte in sala di registrazione. A volte gli dicevo ma questo è un errore del copista, povero copista! (un genio tra l’altro), oppure è così, per cui ci confrontavamo. Poi certe cose mi lasciava relativamente libera di agire. Ci siamo confrontati sulla tipologia di suono, questa è una cosa a cui lui tiene tantissimo. È anche uno molto attento anche al pianoforte, spesso capitava che mi dicesse che sarebbe arrivato l’accordatore alle 9 di mattina, io magari arrivavo alle 9 e un quarto mentre l’accordatore lavorava e io poi arrivavo a dire le ultime cose. Stefano già era lì che controllava tutto, controllava la posizione del pianoforte, controllava se suonava meglio se lo mettevamo a destra, a sinistra, in centro, in tutti i modi. È uno estremamente attento a tutto. E questo per noi è piacevole, come tu puoi immaginare, ti rendi conto che non sei abbandonata a te stessa. Non è uno che ti dice insomma: “Qui c’è il pianoforte. Suona!” È veramente tutta un’altra modalità. Sia io che Luca Pincini, violoncellista, avevamo anche suonato un suo brano molto bello,durante un tour in Cina, che è tratto da film di Wong Kar Wai, Grandmaster. C’è una conoscenza che nel tempo si sta inevitabilmente consolidando, anche perché ormai siamo arrivati a non so a quante serie di quello, qui siamo arrivati a tre e sicuramente si andrà avanti.
P.P.: Tu hai interpretato queste musiche nelle varie stagioni. Una domanda generale: quali sono le caratteristiche principali di questa musica per un pianista, da un punto di vista proprio strutturale, quali sono magari le difficoltà esecutive?
G.B.: Allora da un punto di vista esecutivo, da un punto di vista di quantità di note, a parte qualche brano particolare come la Suite Notturna in do minore – Improvviso, in cui c’è un chiaro ma proprio voluto accenno anche a Chopin, alla varietà chopiniana di suonare, ci sono diverse difficoltà, molte note, parecchi salti, questo è un brano da studiare. Anche in Quella notte, anche lì c’è da studiare, poi ci sono brani più semplici da un punto di vista di note, anche se ti dico poi il trabocchetto è sempre lì girato l’angolo, per esempio, Il Senso del mare bisogna lavorarci, ovviamente non ha una difficoltà lisztiana, questo assolutamente no, la grande difficoltà è nel suono, nella consequenzialità del progetto, perché tu considera che nascono apparentemente per l’immagine, ma poi comunque si suonano anche in concerto. Chiaramente il mio orecchio sta a quello che si è già registrato dal vivo, però dal vivo qualcosa cambia, questa è una cosa su cui ci siamo confrontati telefonicamente e fra un po’ ci rincontreremo per dare un’ultima lucidata al tutto, però il grande lavoro è sul suono, sulla consequenzialità del tutto, tutto deve avere assolutamente un senso come già ha in partitura. Per esempio lui ci tiene tantissimo a utilizzare i suoni “piccoli”, i grandissimi piano devono suonare molto leggeri, in concerto magari questa cosa dipende dalla sala dove uno va a suonare, bisogna fra virgolette modificarla, perché la mia idea rimarrà quella, ma sarà in funzione di una sala da concerto. Stefano ci tiene tantissimo anche alla qualità del pianoforte, per far sì che qualsiasi idea io possa avere sia possibile.
P.P.: In che modo, e lo chiedo a te che hai lavorato tanto nel cinema con il maestro Ennio Morricone e con altri grandi, la musica riesce a raccontare quando la associamo a delle immagini secondo te?
G.B.: Secondo me più che raccontare è un supporto emotivo incredibile, micidiale, quindi ci vuole un po’ di sensibilità, perché a volte per esempio nel cinema la musica non accompagna, ma è di contrasto per esempio, potrebbe essere questo. Poi dipende dai compositori, dalla modalità di scrittura che hanno ognuno di loro, ma per me è un’enorme bolla di espressività che triplica, quadruplica tutto quello che illustra l’immagine, quando chiaramente il compositore, parlando genericamente chiaramente, imbrocca la bolla giusta.
P.P.: Per un pianista, in che modo cambia la prospettiva nell’approccio a un’esecuzione per un prodotto cinematografico o televisivo rispetto a quella che è invece la performance pianistica del concerto tradizionale, tu sei una pianista classica?
G.B.: Guarda, ti dico, lì bisognerebbe parlare con ognuno di quelli che hanno amato lavorare anche per l’immagine, io ti dico, nella mia personale visione non cambia nulla, assolutamente nulla. Parto dall’idea che tutto il mio bagaglio da musicista classica è al servizio dell’immagine, quindi tutto quello che io ho studiato, pensato, lavorato e continuo a fare e lavorare, nient’altro è che la possibilità di poter mettere dentro un mondo di compositore, un mondo di modalità di suonare al servizio dell’immagine, quindi non cambia personalmente, se mi dai da suonare, dico una cosa X in questo momento, Bach, Rachmaninov, Morricone, Bacalov o Lentini, è assolutamente uguale il mio modo di approcciare. Quindi il modo è quello di massimo rispetto per chiunque faccia il compositore, poi ho delle idee mie personali, ma ciò non toglie il rispetto per chi scrive musica, che sia per la sala da concerto che per l’immagine. Prokofiev ha scritto per l’immagine, tantissimi compositori classici hanno scritto per l’immagine.
P.P.: Tornando un istante a Mare fuori, Gilda, mi parlavi di tantissime partiture che ti sono pervenute, soprattutto all’inizio…
G.B.: Non solo all’inizio! Continuamente! Ci sono quelle pianistiche, ci sono poi quelle parte di suoni, magari sto in mezzo all’orchestra e c’è da fare una cosa ogni tanto, oppure so che sto nelle canzoni, perché a volte non me ne accorgo subito, perché si va alla velocità della luce e non c’è il tempo, accompagno le canzoni e, il pianoforte non è lo strumento principale, ma sta dentro a tutta una serie di cose, perché a volte sono chilometri di partiture.
P.P.: Tornando a queste partiture, la domanda è quali sono tra le tante quelle che ti sono sembrate più pianistiche, più strettamente ed unicamente concepite in funzione di un’esecuzione pianistica, quali fra queste nel suonarle ti è piaciuta di più banalmente e per quale motivo?
G.B.: In questo periodo ho due o tre amori, ma adesso si è fatta una cernita per il concerto del 21. Stefano, racconterà all’interno del concerto e poi faremo anche un quattro mani. In questo momento mi piacciono tutte, perché altrimenti non le suonerei. Ma ne ho tre in particolare che amo molto, in questo momento, poi magari ne arrivano altre 12 e dico, ops ce n’è un’altra. Una è il Senso del Mare, che mi piace tantissimo, poi c’è l’improvviso alla stazione e La Sonata dell’incontro. In questo ultimo pezzo tu guardi la partitura e c’è sempre qualcosa che devi lavorare, cambiare le diteggiature mille volte ad esempio, per come ce l’hai nel cervello, per come la vuoi fare, devi cambiare di continuo delle cose, perché almeno per quello che io penso di poter fare, non sono da lettura a prima vista, sì, si può fare per carità a prima vista, forse, non tutti, ma c’è sempre il trabocchetto, come ho detto prima.