
Keith Jarrett. Piano solo: la sfida dell’improvvisazione totale.
Ascoltare un piano solo di Keith Jarrett è partecipare al momento magico in cui un’opera d’arte viene creata, quell’attimo in cui l’idea sorge e si fa materia, si rende tangibile. Qui è musica. Improvvisazione, composizione e interpretazione si fondono in un solo momento in cui chi ascolta resta sospeso sul filo di un interrogativo destinato a non avere risposte prevedibili: “E poi?”. E poi dobbiamo restare là, ad ascoltare in religioso silenzio, a seguire nota dopo nota il percorso del piano solo di Keith Jarrett, dando fondo a tutta la gamma delle nostre emozioni, dallo stupore alla commozione, dal fremito dell’attesa alla paura dell’imprevisto, dalla pace all’incredulità, dalla gioia della bellezza alla fatica di guardarci dentro con maggiore profondità, impossibilitati ad effettuare analisi formali, paralizzati nell’attesa, curiosi.

È il 1971 quando Jarrett incide “Facing You” per la ECM, il suo primo disco in piano solo e uno dei pochi che registrerà in studio. Un album in cui la sua profonda conoscenza della grammatica e della cultura musicale jazzistica trova una felice sintesi, ma anche un lavoro in cui già si intravede quella ambizione all’improvvisazione totale che segnerà il suo percorso musicale, soprattutto nelle performance in piano solo, non a caso, appunto, riprese soprattutto nei suoi live.

Jarrett farà poche eccezioni in futuro riguardo alle sue incisioni in piano solo. Il suo “The Köln Concert”, l’album che ne consacrerà il successo presso il grande pubblico, è frutto di una registrazione realizzata il 24 gennaio del 1975 in Germania dal vivo. Nelle 4 parti in cui il concerto è diviso emerge prepotente questa idea dell’improvvisazione come luogo privilegiato della creazione artistica. Per sua stessa natura il concetto è difficilmente definibile, ma lo studio delle improvvisazioni nel jazz ha da tempo qualificato questo atto creativo come un codice con precise regole. In maniera semplicistica e sommaria si potrebbe dire che improvvisare corrisponda a partire da una traccia melodica, armonica e ritmica e svilupparla in maniera personale, cosa possibile solo quando si ha una completa padronanza, culturale e tecnica, sapere e saper fare potremmo dire, del linguaggio musicale jazzistico. L’approdo all’improvvisazione avviene dopo aver acquisito non solo il cosiddetto chord scale system, ma dopo averne assimilato le modalità di espressione mediante l’ascolto, la trascrizione, l’emulazione. Per un pianista in grado di improvvisare quel passaggio dal pensiero di “cosa devo suonare” al “lo suono” è talmente veloce, quasi azzerato oserei dire, da essere ritenuto un traguardo importante che solo l’attenzione e lo studio possono consentire.

C’è una celebre affermazione di Keith Jarrett che recita: “Non ho nemmeno un seme quando comincio. È come partire da zero.” In questa frase è contenuta la sintesi del suo sogno di un’improvvisazione totale. Jarrett, profondo conoscitore della cultura musicale, azzera queste conoscenze, si presenta metaforicamente nudo al pianoforte. Spesso parte da un nucleo ritmico o un ostinato, usa poche note ripetute in successione con la mano sinistra, medita, riflette a voce alta (quella del suo pianoforte), attende che la melodia sia generata dalla sua mano destra. Ascoltiamo la composizione farsi nell’istante stesso in cui viene eseguita, all’improvviso in quanto non premeditata, non pensata in una fase precedente, non elaborata a livello conscio. Non c’è testo scritto. Le pause, le sospensioni che possiamo percepire nelle improvvisazioni di Keith Jarrett corrispondono ad altrettanti momenti della sua ricerca estemporanea di un’idea, al suo cedere totalmente alla musica, senza difese, senza precauzioni. Jarrett non si nasconde dietro patterns conosciuti, dietro frasi musicali pre-meditate. Jarrett esplora, cerca, trova.

Intenso, lirico, poetico, Jarrett mette in scena la sua creatività, il suo suono. Pensiamo alla difficoltà della sua logica improvvisativa: genera qualcosa che non è mai punto di arrivo definitivo, piuttosto direi punto di partenza verso un ignoto, che è rischio, sfida continua affrontata in solitudine e che richiede un atto di coraggio, un abbandono totale. Keith Jarrett si abbandona alla musica, non chiede nulla alla sua memoria, esplora piuttosto i territori dell’immaginazione, la mostra nell’istante stesso in cui questa gli si palesa con le sue immagini, lascia che queste stesse immagini prendano forma e il processo è irreversibile. Come scrive Davide Sparti nel suo “Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana” (Il Mulino, 2005), citando Max Roach, “[…] improvvisare un assolo è come impegnarsi in una conversazione con se stessi: parli, reagisci, riparli, rispondi a te stesso, asserisci ancora qualcosa, e ne segue una ulteriore risposta […]. Sparti fa riferimento a un assolo, pensiamo allora a un’intera performance solistica. Già il piano solo viene temuto da molti pianisti come luogo di rischio, spazio in cui la solitudine non concede errore che possa essere nascosto, esposizione a una sorta di nudità emotiva e musicale che fa paura. Se a questo rischio associamo anche la totale assenza di una traccia, uno starting point che sia motore di uno spostamento controllato, allora comprendiamo il valore della sfida di Jarrett. Citando ancora Davide Sparti (op.cit., 2005): “Non si controlla la musica, si controlla se stessi”. Nel caso di Jarrett ne siamo così sicuri? Siamo certi che questo grande pianista domini se stesso? O non è piuttosto dominato dalla musica? L’idea può sembrare romantica, il sacro fuoco dell’arte che brucia e consuma l’artista, ma proviamo a guardare Keith Jarrett mentre suona.

Jarrett si incurva sul piano, si alza in piedi, scuote la testa, canta ciò che suona, il suo viso è spesso contratto in una smorfia di dolore. Jarrett suona con il corpo e non solo con il cuore e la mente. E la musica in fondo a ben pensarci la facciamo anche con il corpo. Osserviamo il pianista immerso in questo mondo sonoro e lo vediamo brillare nelle zone di luce della sua musica, farsi oscuro negli spazi che sembra non conoscere, soffrire e godere con uguale intensità, in un’operazione di dedizione totale, di sacrificio di sé, che sta nell’atto stesso del suonare. Pensiamo a Bill Evans, ma anche a Glenn Gould: due pianisti che come Jarrett hanno fatto della musica un’esperienza di vita totale, senza porre filtri. La loro postura, il loro quasi “abbracciare” lo strumento, l’assecondarlo, ci rimanda a una concezione totalizzante dell’esperienza musicale e per questo dolorosa. Se pensiamo a un qualunque altro strumento musicale, ad esempio una tromba, o un violino, ci è facile pensarlo come un naturale prolungamento del corpo umano, come a qualcosa che la mano dell’uomo sa dominare mediante il contatto diretto, ma con un pianoforte è diverso. Possiamo entrare in relazione fisica con soltanto una delle sue parti, la tastiera, possiamo percepirlo distante, indifferente, estraneo, arduo da domare.

Nel 1996 Keith Jarrett si ritira dalle scene per una malattia diagnosticata come “sindrome da fatica cronica”. Riemerge dal silenzio musicale nel 1999, con un album in studio dedicato alla moglie, appunto in piano solo, dal titolo “The Melody at Night with You”. È un album di delicate ballads in cui prevale l’aspetto delicatamente poetico del pianista. Un’apparente semplicità musicale rende un clima di quiete, quasi una riconciliazione con il proprio motivo di esistere. Esistere per suonare, per comunicare una parte di sé altrimenti intangibile, qualcosa che trova sostanza nella musica, solo nella musica. Il pianista torna in questo luogo che è necessità. Il titolo del suo libro, “Il mio desiderio feroce” (Edizioni Socrates, 1995), rimanda a un rapporto con il pianoforte e con la musica che è appunto desiderio feroce di suonare, irrinunciabile amore/ossessione/passione, relazione complessa in cui la stessa fatica, la violenza, la dedizione sono volti diversi di un sentimento profondo.

Nel 2009 l’Ecm pubblica “Testament”, triplo cd contenente le registrazioni di due concerti di Jarrett in piano solo, uno a Parigi e l’altro a Londra tenuti fra novembre e dicembre 2008. Questo lavoro rappresenta una sorta di sintesi dell’universo musicale di Keith Jarrett. Blues, jazz, musica classica, groove swingante e melodie pacate, tutto ciò che è musica risiede in questo meraviglioso lavoro creativo, in cui il pianoforte esprime tutte le sue potenzialità espressive. Riprendendo quel tipo di improvvisazioni di media durata che già aveva sperimentato in “Radiance” ad esempio Jarrett compie il miracolo dell’espressione totale di sé. Come un essere umano possiede infinite sfumature caratteriali a determinarne la personalità, in “Testament” il pianista ci regala un quadro dai colori brillanti del proprio universo musicale, un mondo multiforme e in continua evoluzione il cui fine principale è cercare, trasformarsi, divenire. Ascoltiamo due note e riconosciamo che è Jarrett a parlare, ma il bello è che non sappiamo mai cosa sta per dirci e possiamo solo stare ad ascoltare e chiederci: “E poi?”.
