
Intervista ad Alessandro Giachero
a cura di Giulio Cinelli e Paola Parri
In musica fra il mestiere e l’arte il confine è sottile, eppure ben definito. La tecnica e il rigore non sono sufficienti a definire un musicista quale artista, occorre piuttosto quel coinvolgimento totale della persona che prescinde dalla mera applicazione di nozioni musicali e si attesta su valori più intimi, su un naturale senso di appartenenza assoluta alla musica, quasi una devozione. Alessandro Giachero, pianista, compositore, docente presso la Fondazione Siena Jazz, è soprattutto un artista impegnato che ha rivolto questo suo impegno verso una ricerca approfondita in uno dei campi più misteriosi della musica, quello dell’improvvisazione totale. Lo abbiamo incontrato per parlare di questo suo progetto di ricerca, che conduce sia in piano solo che con il trio con cui suona “T.R.E.”, per cercare di capirci qualcosa di più. Ne è emerso un ritratto di artista completo, con una profonda fede nelle possibilità espressive e comunicative della musica. La musica come mezzo che veicola la totalità della persona, che ne liberà le potenzialità, che ne illumina i punti oscuri, se vissuta con rigore e onestà intellettuale. La musica come punto di arrivo finale di un percorso di crescita individuale che passa attraverso un ampio concetto di cultura, un concetto in cui i linguaggi delle diverse arti si intersecano e ci vengono restituiti in musica. Alessandro Giachero ha fatto tesoro dei suoi studi classici, jazzistici, di esperienze importanti con improvvisatori come Stefano Battaglia, Anthony Braxton, William Parker e continua la sua evoluzione musicale in un iter costante di ricerca.
Pianosolo desidera ringraziare Franco Caroni, presidente della Fondazione Siena Jazz-Accademia Nazionale del Jazz, per la consueta disponibilità e cortesia.
Vi lasciamo alla nostra intervista e vi invitiamo a visitare il sito di Alessandro Giachero.

Paola Parri: Costruiamo una storia: luogo di partenza. Motivo della partenza. Direzione.
Alessandro Giachero: Punto di partenza… io ho fatto il Conservatorio quindi sono passato prima da tutto lo studio della musica classica e poi mi sono interessato all’improvvisazione, quindi ho cominciato ad ascoltare jazz, a prendere lezioni di jazz e da lì mi sono avvicinato a questo mondo jazzistico per poi interessarsi di più all’improvvisazione totale, che è quello che cerco di fare al meglio. La motivazione del passaggio dalla musica classica al jazz è stata proprio l’improvvisazione, cioè è stata la motivazione di suonare senza lo spartito musicale, quindi cercare di esprimersi, tirare fuori qualcosa senza avere davanti la musica stampata davanti.
P.P.: Quindi parti da una formazione classica. Cosa hanno in comune Bach e Charlie Parker?
A.G.: Hanno molto in comune. Hanno la continuità del fraseggio, il fraseggio melodico. Quindi un approccio melodico alla musica e ritmico. Quindi c’è molta affinità tra Parker e Bach, come tra altri jazzisti e altri ambiti musicali, come ad esempio mi viene mente Debussy e Bill Evans.
P.P.: Quindi ha ancora un senso parlare di generi musicali oggi, creare delle schematizzazioni?
A.G.: A me non sono mai piaciute le schematizzazioni, gli inquadramenti dentro a generi o categorie. Io ascolto dalla classica, soprattutto contemporanea, alla musica della Tanzania, alla musica irlandese, alla musica del Cinquecento, al jazz tradizionale oppure al jazz più moderno, cercando di prendere delle cose da ognuna di queste, prendendo spunto da queste cose per crescere musicalmente. Quindi sono assolutamente aperto.
P.P.: Il fulcro del tuo lavoro musicale è incentrato sul concetto di improvvisazione. Sapresti darcene una definizione teorica? Sai che per molti è un concetto astratto, spesso identificato erroneamente con il mettersi a suonare a caso ciò che viene in quel momento.
A.G.: In realtà è una falsa cognizione questa dell’improvvisazione “a caso”. In realtà c’è uno studio molto rigido dietro, giornaliero, di improvvisazione, ad esempio nel mio caso di isolamento dei parametri della musica e di ricombinazione di questi parametri, oppure studio di cellule melodiche, lo sviluppo e lo spostamento di queste cellule melodiche. Quindi è uno studio giornaliero che è fatto sia a priori, scegliendo magari la direzione, il materiale su cui improvvisare, oppure fatto in maniera istintiva, cioè improvvisando, riconoscendo il materiale, quindi cercando di fare una composizione estemporanea. Quindi non improvvisando a caso, ma cercando una struttura nell’improvvisazione, una gestione della forma nell’improvvisazione, e quindi in pratica avvicinare i due mondi: l’improvvisazione e la composizione.
P.P.: Spesso c’è ambiguità fra questi due termini: improvvisazione e composizione estemporanea. Da quello che mi dici sembrerebbero identificarsi in qualche modo. Esiste una metodologia generale di apprendimento dell’improvvisazione? O esistono più metodologie? Tu hai un “metodo Giachero” che applichi sostanzialmente sempre, ogni volta che ti siedi al piano e decidi di affrontare un’improvvisazione?
A.G.: Sicuramente ci sono varie metodologie, Nel mio percorso ad esempio, avendo fatto dei laboratori con Stefano Battaglia, con William Parker e Anthony Braxton, ho appreso e capito delle cose nello studio e nella gestione dell’improvvisazione e ho cercato di farle mie e da lì di andare avanti. Quindi adesso ho più o meno una mia metodologia che cerco di sviluppare di volta in volta e che devo anche costruirmi, perché è una metodologia che voglio che sia un po’ mia, un percorso che voglio fare io. Quindi devo un po’ costruirmela, capire dove posso andare, cosa posso fare, quindi è un percorso che faccio giornalmente e anche io a volte non so dove posso andare o le strade che posso prendere. È una scoperta anche per me questo tipo di metodologia. Però la metodologia principale è quella di tenere separate le varie aree della musica e poi mettere insieme, oppure improvvisare su microstrutture, questo per quanto riguarda le improvvisazioni brevi. Invece mi interessa anche fare un tipo di improvvisazione di tipo più liberatorio, in cui suono ad esempio un’ora, un’ora e mezza, e cerco di gestire questo tempo enorme, passando da una cosa all’altra e cercando di essere sempre dentro la musica. In questo modo è veramente uno sforzo enorme, però diventa quasi una cerimonia che dura un’ora, un’ora e mezza, in cui vengono fuori delle cose che non verrebbero fuori in un’improvvisazione breve.
P.P.: Quando ti siedi al piano sono molte le componenti che si mettono in campo: una è intellettuale, l’altra è fisica e infine ce n’è una emotiva. C’è nella tua esperienza qualcosa da cui non si può prescindere fra questi tre elementi? Qualcosa che è più importante?
A.G.: La cosa più importante probabilmente è l’onestà con cui faccio questa cosa. Ancora di più a volte, non dico del risultato, però il fatto di farla con la maggiore onestà possibile, quindi veramente di improvvisare, quindi di cercare veramente quello che voglio cercare, quello che penso, credo sia la cosa più importante. Quindi non far finta di improvvisare, non far finta di fare le cose, ma essere veramente me stesso dentro l’improvvisazione.
P.P.: Quindi la musica come comunicazione di sé sostanzialmente?
A.G.: Esatto. Io ho questa visione, come comunicazione della persona in generale, quindi intellettivamente, emozionalmente e sentimentalmente, fisicamente, appunto, come dicevi.
P.P.: Tu lavori con un trio che si chiama T.R.E., sciogliendo l’acronimo, Tri – Razional -Eccentrico. Spiegaci il significato di questo nome e soprattutto quali sono le componenti principali del lavoro che svolge questo trio.
A.G.: Il trio è fomato da Stefano Risso al contrabbasso e da Marco Zanoli alla batteria. Siamo un trio completamente equilibrato, non c’è in realtà un leader. Ognuno di noi tre propone la musica, direzioni, idee. Il nome viene proprio da questo binomio che ho detto prima, cioè la parte razionale e la parte irrazionale, la parte compositiva e la parte improvvisativa.Tri-Razional-Eccentrico, cioè la parte razionale quando scriviamo la musica, quando arrangiamo un brano nostro e la parte eccentrica, appunto la parte emotiva e la parte espressiva. Infatti abbiamo sviluppato queste caratteristiche nel percorso dei vari dischi abbiamo fatto. Dal primo disco che è stato un disco di composizioni in forma canzone, che si chiama “Passaggi”, al secondo disco che è “Riflessi”, che è in realtà un disco di sola improvvisazione, quindi le due componenti separate. Il terzo disco che si chiama “Viaggio”, è l’unione invece di queste due componenti, cioè sono composizioni che si aprono, quindi c’è l’idea compositiva iniziale che si apre e la struttura, la forma del pezzo viene fatta in maniera improvvisata. Nel quarto disco invece, l’ultimo, che è uscito adesso, che si chiama “Lyrics”, abbiamo ripreso composizioni nostre e in più abbiamo messo questa idea all’interno di alcuni standards.
P.P.: Lavorate molto nell’ambito della ricerca nel campo dell’improvvisazione. Qui nel disco, che è un doppio, c’è un cd interamente dedicato a standards, qual è la differenza di approccio?
A.G.: In realtà l’approccio è lo stesso. Abbiamo preso gli standard e li abbiamo un po’ destrutturati. Abbiamo cercato di usare il materiale degli standard come usiamo noi le nostre composizioni, quindi abbiamo cercato di sviluppare o approfondire il materiale melodico, il materiale tematico, magari facendo delle improvvisazioni solo sul materiale melodico, quindi togliendo l’armonia dallo standard, oppure abbiamo approfondito il materiale armonico, oppure il materiale ritmico dello standard. Abbiamo fatto esattamente quello che facciamo nel nostro materiale musicale originale, lo abbiamo messo negli standard. Abbiamo voluto fare questa operazione per usare il nostro linguaggio e metterlo negli standard. Avendo acquisito e sviluppato un linguaggio nostro, lo abbiamo trasferito nelle canzoni standards.
P.P.: Quanto andate in studio suonate esattamente quello che avete provato?
A.G.: No. A volte vengono delle idee direttamente lì in studio, perché ognuno di noi pensa delle cose, che poi vengono sviluppate anche direttamente in studio.
P.P.: Il piano solo.
A.G.: Il piano solo è una sfida con sé stessi. Il piano solo improvvisato ancora di più, perché è mettersi completamente a nudo, in libertà con sé stessi e esprimersi al massimo, perché lo strumento è quello che si studia giornalmente e improvvisare totalmente sul pianoforte significa proprio sviluppare questo tipo di approfondimento, di vibrazione di sé stessi quando si suona.
P.P.: Visto che parli di un coinvolgimento emotivo fortissimo, totale, della persona, nel momento in cui soprattutto in piano solo improvvisa, qual è la percezione dell’esterno?
A.G.: Molto poca. In realtà per me, quando improvviso in piano solo sono completamente preso da quello che faccio, sia espressivamente, emozionalmente, sia a livello intellettivo, nel senso che devo comunque gestire quello che sto facendo, non è soltanto un coinvolgimento fisico, espressivo, con il quale non riesco a gestire il resto. Devo gestire ovviamente anche quello che sto facendo, quindi entra anche la parte cerebrale. Però sono dentro completamente alla musica, quindi l’esterno conta abbastanza poco.
P.P.: Tutto questo si può imparare, insegnare? Tu svolgi attività di didatta qui a Siena Jazz. Si può insegnare tutto, o c’è una parte che non è apprendibile e quindi insegnabile da parte di nessuno?
A.G.: Credo che si possa trasmettere più che insegnare. Insegnare l’espressività è una cosa un po’ difficile, però forse si può trasmettere intanto credo l’onestà di fare musica, cioè il coinvolgimento e il rispetto per la musica. La musica è una cosa importante, una cosa che può far trasmettere dei sentimenti, delle emozioni, il coinvolgimento molto importante della persona, questo sicuramente, poi ovviamente per crescere in questo modo non basta solo la musica. Bisogna avere un interessamento per altre cose che fanno parte poi della vita di una persona e che la musica trasmette soltanto.
P.P.: Quindi come veicolo?
A.G.: Come veicolo esattamente. Non tutto quello che si esprime viene soltanto dalla musica, ma viene da un contesto di cose, di letture, di interessi che va nella musica.
P.P.: Quindi anche una formazione culturale ampia.
A.G.: Esatto. Sì, penso sia molto importante se si vuole andare in profondità su alcune cose ovviamente. Più si va in profondità più bisogna capire cosa c’è intorno, bisogna capire altre forme d’arte, come hanno sviluppato delle cose altre forme d’arte, o anche solo prendere altre forme d’arte, farsi coinvolgere, e improvvisare, per esempio una poesia, o un quadro. Farsi coinvolgere da altre forme d’arte e improvvisare sulla vibrazione che ho ottenuto leggendo una poesia o guardando un quadro. Credo che questo faccia crescere.
P.P.: Direzione finale. Qual è? Hai una meta, un sogno, un obiettivo da raggiungere, un progetto, anche nell’immediato?
A.G.: Nell’immediato ho due progetti che devono concretizzarsi. Uno è il disco che dovrebbe uscire l’anno prossimo con un quartetto d’archi, che sono tutte composizioni mie. La formazione è quartetto d’archi, flauto, pianoforte e percussioni. Sono pezzi in cui c’è una parte molto ampia di scrittura e poi delle aperture all’interno dei brani. In questo progetto ho voluto porre l’attenzione sulla scrittura musicale. Invece a luglio ho registrato varie improvvisazioni in piano solo che faranno parte di alcuni dischi che spero usciranno a breve e che sono parte del lavoro che ho fatto fino ad adesso, la conclusione di un percorso che ho fatto fino ad adesso, e da lì ho già delle idee per cercare di andare avanti, per sviluppare il piano solo.
Bello! Bello!! Bello!!!, grazie a Paola e Giulio!!!!, ci sarebbe da scrivere un libro su questa intervista, tenendo anche di conto dell'incontro diretto avuto in occasione dell'Workshop di settembre 2011, ma mi limiterò, per non annoiare i lettori, a dei flash (sono comunque sempre disponibile a spiegarli ed a motivarli più estesamente se richiesto). Iniziamo: una sensazione, ascoltando il sottofondo, di una "contrappuntistica accordale", meravigliosa la "spalmatura d'anima" che Alessandro riesce a comunicare, trasmette nella didattica il rispetto e la trasparenza in un'ottica di "democrazia musicale". Oltre all'improvvisazione totale siamo di fronte ad una "umiltà totale", un '"intervista all'umanità", Giachero rappresenta l'artista sul palcoscenico in compagnia della sola "sedia", in un "free climbing" intimo, uno sforzo personale totale, permeato di tutta l'importanza che la cultura a tutto campo deve avere.
Alessandro…grandissima persona e grandissimo pianista che stimo davvero molto. Mi conforta molto sapere che anche lui è passato dagli studi classici alla sua vera "vocazione" 😀 probabilmente seguirò il suo percorso! =)
Meravigliosa intervista come sempre, Paola!
Bisognerebbe prendere esempio da lui per quel rispetto e quella serietà nel fare musica che sono cosa rara.
Bravo Giulio nelle riprese e nel montaggio, che ha saputo dare il giusto ritmo e la giusta enfasi alle parti centrali di questi contenuti!