
Intervista a Nicola Mingo. Teramo. Imc Masterclass 2011
a cura di Paola Parri e Giulio Cinelli
Teramo, 24 agosto 2011
Nicola Mingo, chitarrista jazz napoletano con formazione classica, ci parla del suo amore per la chitarra, della sua esperienza musicale, dell’apporto fondamentale di altri strumenti nella sua formazione e di tutti quei musicisti che lo hanno ispirato. Lo abbiamo incontrato a Teramo, a Interamnia Music Class, dove ha tenuto delle lezioni avanzate di chitarra jazz. La nostra chiacchierata è stata anche occasione per presentarci il suo ultimo lavoro discografico, intitolato “We Remember Clifford” e dedicato appunto a Clifford Brown, progetto in cui hanno suonato anche il pianista Antonio Faraò, il contrabbassista Marco Panascia e il batterista Tommy Campbell. Di seguito la video intervista e una trascrizione.

Paola Parri: Nicola benvenuto su Pianosolo.it. Siamo qui con Nicola Mingo, chitarrista jazz, di formazione però classica. Tu hai studiato chitarra classica al conservatorio. Visto che qui siamo tutti pianisti, facci appassionare alla chitarra. Cos’ha di magico questo strumento?
Nicola Mingo: Tante cose! La chitarra ad esempio ha una cosa fondamentale che sono le ottave, il modo di suonare le ottave che aveva Wes Montgomery, questa sonorità… faccio un esempio molto banale. Questo se lo suoni al pianoforte con la stessa tecnica non ti verrà mai fuori questo suono, la chitarra ha un suono più compatto rispetto al pianoforte. Poi un’altra cosa importante della chitarra è il discorso storico, cioè la chitarra nasce più come strumento per il blues, quindi di base un buon chitarrista jazz è anche un chitarrista blues. Ma particolare è anche il fraseggio armonico e melodico, un po’ come faceva Joe Pass, cioè la polifonia, riuscire a suonare contemporaneamente 3 linee, cioè il basso, l’armonia e il canto. I pianisti sono molto avvantaggiati su questo, perché godono dell’indipendenza fra la destra e la sinistra, quindi possono facilmente estendere un accordo e contemporaneamente fare il basso e l’improvvisazione. Noi ci dobbiamo lavorare in maniera particolare. La cosa principale è creare dei walking bass, cioè su una linea di base su un B flat blues, in Si bemolle blues, io ho degli accordi come Si bemolle 13, Si bemolle 9, creare un walking bass.
P.P.: Quando hai iniziato? Come? Perché?
N.M.: Ho iniziato a 6 anni. Ero bambino e ho cominciato per passione. Era un periodo particolare, Era il ’68, un periodo in cui si suonava, si suonava musica molto alla portata di tutti. Bene o male in ogni casa c’era una chitarra, era un periodo in cui la chitarra era fortemente voluta, anche come strumento di accompagnamento. Discorso diverso quando poi invece ho iniziato a studiare la musica, cioè a 13 anni. Ho studiato chiaramente le cose principali: lezioni di teoria, di armonia, chitarra classica, ho fatto il conservatorio, però la mia passione era proprio quella per il jazz, perché ritengo che nell’improvvisazione ci sia proprio qualcosa di personale, di creativo, la possibilità di esprimere la propria personalità attraverso la musica. Sono appassionato poi anche di tanti pianisti. Attraverso l’ascolto di musicisti come George Benson, Wes Montgomery, Joe Pass ho scoperto poi la musica di musicisti come Oscar Peterson e tanti pianisti, anche quelli del passato, come Bud Powell, Art Tatum.
Si diceva che Joe Pass era l’Art Tatum della chitarra, perché creava più o meno lo stesso tipo di soluzione armonica trasportata sulla chitarra. Sono molto appassionato anche di altri strumenti come trombe e sassofoni. Nemmeno a farlo apposta ho iniziato a suonare il jazz ascoltando Charlie Parker, perché quando ho ascoltato i primi brani di Charlie Parker mi sono reso subito conto di questa cosa particolare del fraseggio jazz, la caratteristica dominante di questa musica. Mi sono appassionato al be bop, al fraseggio di Parker e Gillespie, frasi sassofonistiche che io poi ho riportato sulla chitarra. Mi sono appassionato a questo tipo di musica e ho fatto nella mia carriera, adesso sono al sesto disco, dedicato a Clifford Brown, sempre tributi ad altri strumentisti. In particolare ho fatto un guitar solo nello stile di Joe Pass dedicato a Charlie Parker, un disco uscito nel 2007 con Raitrade. Poi ho fatto tributi a Wes Montgomery che è il mio chitarrista guida, ad altri musicisti e questo ultimo lavoro che è un tributo a Clifford Brown.
P.P.: Parliamo di questo disco. Com’è nato il progetto? Con chi lo hai realizzato?
N.M.: Il progetto è nato da un’idea mia, dato che comunque ero appassionato di Clifford Brown, mi piacevano moltissimo il suo fraseggio, i suoi brani, in particolare ascoltavo molto Art Blakey and The Jazz Messengers e mi piaceva molto quel modo di suonare degli anni Sessanta, i gruppi con Max Roach, con Sonny Rollins, laddove poi Clifford Brown ha dato il meglio di sé, perché c’è stato poi quel periodo dell’hard bop, dei Jazz Messengers in cui Clifford Brown ha creato brani come “Daahoud”, “Jordu”, “Sandu”, che ho anche inserito nella scaletta di questo cd, che si intitola “We remember Clifford”, parafrasando Benny Golson e il suo “I Remember Clifford”. Quindi ho fatto questa cosa e ho avuto il piacere di suonare con musicisti come Antonio Faraò, col quale suono dal ’96, ormai sono più di 16 anni che suoniamo insieme, lui ha seguito tutto il mio tour, quello di “Talkin’ jazz”, quello di “Guitar Power”, e adesso anche questo. Abbiamo presentato il cd a Umbria Jazz quest’estate. Con Giorgio Rosciglione e Gegé Munari, ritmica storica del jazz italiano. Ma in particolare in questo cd suona Tommy Campbell, uno dei migliori batteristi, senza nulla togliere agli altri, perché ha suonato con Sonny Rollins e Dizzy Gillespie e ha comunque quel drumming tipico della musica di Max Roach e Marco Panascia, un contrabbassista catanese che vive a New York.
P.P.: Quindi lo stile di uno strumentista, nel tuo caso di un chitarrista, si costruisce anche ascoltando. Cosa ruba un chitarrista a un pianista?
N.M.: Moltissimo. La prima cosa che ho notato quando ascoltavo i pianisti era la completezza, perché quando ascoltavo Joe Pass e Oscar Peterson suonare insieme notavo la differenza di completezza dal punto di vista armonico e dal punto di vista anche dell’accompagnamento. Ho rubato molto i walking bass di Oscar Peterson, perché li ritenevo molto più completi di quelli di Joe Pass, che forse è più limitato anche dal punto di vista della tastiera. Quindi secondo me è anche importante entrare in altri strumenti, capire cosa succede su altri strumenti per poi riportare sul proprio. Il fraseggio dei fiati ti dà delle cose, il fraseggio del piano te ne dà delle altre, però poi ritorni alla chitarra.
P.P.: Qui a Teramo sei in veste di didatta. Secondo te quali sono gli elementi più importanti da trasmettere a chi, come in questo caso, si avvicina per un perfezionamento?
N.M.: I masterclass nascono di per sé come corsi di perfezionamento, per cui ben venga l’allievo che già suona, che già sa di che si tratta, quello a cui dici “suoniamo un blues” e lo si comincia a suonare e in base a quello già si comincia a capire le cose su cui dobbiamo lavorare e questo è un lavoro che si fa sempre riferendosi anche al proprio bagaglio di esperienze, perché avendo tanta dimestichezza anche con l’armonia, capisci subito quali sono i punti di forza e anche però quelli di debolezza, nel senso dov’è che bisogna lavorare. Io lavoro molto sullo swing, perché quello che trovo meno facile, l’aspetto più difficile del jazz è produrre swing.
P.P.: Una domanda da un milione di dollari. Cos’è lo swing?
N.M.: Lo swing è una pulsazione ritmica. Il punto non è l’armonia, il punto è come tu fai girare l’armonia, riuscire anche in un chord solo a portare il tempo come se ci fosse la batteria, pensare alla ritmica, anche se una ritmica non c’è. La cosa più difficile del suonare da soli è questa, soprattutto per noi chitarristi (bene o male col pianoforte si può accompagnare facendo un walking bass). Un chitarrista in genere può fare o solo il basso o solo l’armonia. L’insieme di queste due cose fa la polifonia.
P.P.:Possiamo imparare allora lo swing? Si impara?
N.M.: Secondo me è molto importante il contatto con il musicista. I libri aiutano soprattutto chi legge molto bene. Secondo me se hai una buona base di musica classica puoi capire bene gli accenti, la pronuncia che viene inserita all’interno di un walking bass, però ancora migliore è vedere per l’aspetto visivo e pratico, il musicista in azione e capire i sistemi. C’è ovviamente tutta una tecnica da studiare. Ringrazio tutti i seguaci di Pianosolo.it.
P.P.: Grazie a te.
Grazie Paola e Giulio di questa bella intervista ad un così valente chitarrista, che sottolinea perfettamente che Pianosolo non è Piano "solo" ma spazia e completa la formazione musicale attingendo ovunque siano presenti zampillanti fonti!, ed un "amarcord" dei miei inizi, comuni a tanti fans di pianosolo (chitarra primo amore), anche se la mia Gibson adesso stà per lo più parcheggiata sull'armadio, chiusa nella sua custodia, tradita (ma non troppo 🙂 ) dal Kaway che ho sul tavolo.
Caro Sergio, grazie a te dell'apprezzamento. Nel processo di apprendimento del piano jazz ascoltare anche altri strumentisti è fondamentale. Come dice Nicola Mingo, gli elementi che si possono "rubare" sono moltissimi, tutti utilissimi! 🙂