Intervista a Claudio Filippini. Musicus Concentus 2011, Firenze 4/11/2011
a cura di Paola Parri e Giulio Cinelli
Ha 30 anni ed è nato a Pescara. La sua formazione è classica, ma ha scelto la versatilità del jazz per esprimere il suo talento. Claudio Filippini unisce a una tecnica sorprendente la capacità di esprimere musicalmente il proprio mondo e una rara abilità compositiva. Libertà, sincerità e ispirazione sono le tre parole che a nostro avviso lo descrivono, una grande intelligenza musicale e un suono, uno stile personali che denotano maturità artistica. Il suo ultimo lavoro discografico “The Enchanted Garden” ne ha evidenziato il talento e la forte vocazione internazionale. Lo abbiamo incontrato in occasione del suo concerto in piano solo a Firenze per la rassegna Musicus Concentus.
Per saperne di più su Claudio Filippini visitate il suo sito.
Paola Parri: Il pianoforte: per molti qualcosa di romantico, un’idea, un ideale quasi. Per altri quasi un arnese, uno strumento del mestiere. Per te?
Claudio Filippini: Per me è comunque uno strumento. Che poi possa essere romantico o meno dipende da come ti svegli la mattina, se sei felice, triste, incavolato. È un mezzo per esprimere quello che hai dentro. Quando uno va in profondità, che non è facile (spesso scattano degli automatismi, uno mette il pilota automatico e va), però quando sento che c’è veramente qualcosa è perché è quello che sento io.
P.P.: Tu hai una tecnica strepitosa però anche una grande capacità espressiva. Come si conquista questa completezza linguistica in musica?
C.F.: La tecnica è una cosa che richiede molto studio, stare ore ed ore al pianoforte. Io ho iniziato da piccolo. Non c’è un’età. Chiaro che gli esercizi che uno fa a 6 anni, quando la mano è ancora piccola, te li ritrovi con gli interessi quando sei più grande. Per la tecnica non c’è un trucco, è solamente studiare tanto, poi è chiaro, per la musica che piace a me, il jazz, l’improvvisazione, entrano in gioco altri fattori come il gusto e tante altre cose. Tanti modi ad esempio di approcciare lo stesso pezzo. Quello che piace a me è magari prendere un pezzo che magari sia un pezzo mio, o una canzone qualsiasi, uno standard jazz e cercare ogni volta di suonarlo in un modo diverso. Qualche volta magari mi metto dei paletti io. Prendo un pezzo e lo immagino quasi come fosse la colonna sonora di qualcosa.
P.P.: Il luogo comune che recita che la musica è sacrificio e dedizione è reale o lo sfatiamo?
C.F.: In parte è vero. Sacrificio nel senso che uno sullo strumento ci deve stare e c’è chi ha più facilità di altri, tecnicamente parlando. Ci sono delle cose che io sul pianoforte non riuscirei mai a fare, sono convinto di questo perché comunque so quali sono i miei limiti. Per esempio, se mi metti davanti un “Mephisto Waltz” di Liszt, anche se ci sto 16 ore al giorno non ci arriverò comunque a farlo come un ragazzino di 12 anni che… arriva e lo fa! Ma quella è un’altra cosa. La tecnica è proprio come la palestra, cioè l’agilità delle dita uno se la deve conquistare con il sacrificio, quindi in parte è vera questa cosa del sacrificio.
P.P.: Hai rinunciato a qualcosa per la musica?
C.F.: Ho rinunciato ad andare a giocare a pallone con gli amici, stavo in casa a studiare d’estate spesso quando ero piccolo, però alla fine non è stata una rinuncia. Magari lo è stata allora, ma adesso mi ritrovo tutto con gli interessi, perché comunque è quello che ho sempre voluto fare. Momenti difficili ci sono per tutti ovviamente, di sconforto, ma penso che questa sia una cosa che non è nella formazione e che duri piuttosto tutta la vita. Però no, non credo di aver rinunciato a niente alla fine tirando le somme.
P.P.: Buoni e cattivi maestri in musica…
C.F.: Buoni e cattivi maestri… Tornando un po’ al discorso del sacrificio e dello studio, il maestro con il quale ho studiato musica classica per la maggior parte del tempo era un grandissimo virtuoso, aveva una tecnica prodigiosa, tra l’altro della vecchia scuola napoletana, quindi proprio con le dita tutte per aria, e io passavo non so, la lezione durava un’ora, quaranta minuti, facendo questo… (suona) quindi facevo questo. Questa cosa da un lato mi ha fatto diventare la mano così… a 6 anni ero piccolo ma avevo le mani identiche ad adesso, la cosa che ho scoperto invece poi con il tempo è che per lui che io suonasi Bach, Chopin o Beethoven era la stessa identica cosa. Per lui avevo capito che occorreva suonare le note giuste a tempo, quindi non avevo idea di cosa fosse il suono, di cosa fosse la costruzione di un fraseggio e sono stato fortunato quindi da un certo punto di vista e sfortunato da un altro. Poi persone ne ho incontrate tante, musicisti, maestri. Uno può imparare anche magari solo una cosa, una frase, anche da un tuo allievo, da chi non è arrivato ancora al tuo livello di formazione. Maestri ne ho avuti tanti. Se penso a tutte le persone che ho incontrato nel mio percorso, ho cercato di prendere ciò che mi piaceva, del buono, da ognuno. Questo ha contribuito a costruire il mio zainetto, ho messo tutto dentro, un po’ da uno, un po’ da un altro.
P.P.: Il piano solo…
C.F.: Il piano solo è una bella sfida, perché comunque sei da solo appunto, non hai nessuno, quindi sei completamente esposto. Il che da un lato può essere una cosa che spaventa e dici “sono da solo, chissà se sbaglio una nota si sente tutto”, magari quando sei trio o in quartetto sei più rilassato, perché puoi nasconderti… ma da un lato hai completa libertà, puoi fare quello che vuoi, quindi io la vivo senza aver paura di dover dimostrare qualcosa, anzi preferisco suonare… in realtà non so nemmeno cosa suonerò stasera, non faccio una scaletta, vado molto a sensazione. In genere, di norma, preferisco cimentarmi con brani semplici e cercare di suonarli al meglio e in maniera profonda, piuttosto che andarmi a trovare delle soluzioni armoniche e ritmiche difficili e impappinarmi, cosa che può succedere. Quindi cerco di suonare cose semplici.
P.P.: Presentaci brevemente il tuo ultimo disco.
C.F.: Il mio ultimo disco, che si intitola “The Enchanted Garden” (Il giardino incantato), è un disco che è uscito a settembre per la Cam Jazz, registrato in trio con Marcello Di Leonardo alla batteria e Luca Bulgarelli al contrabbasso. Posso solo dire che sono molto contento di questa registrazione perché la desideravo da tanto tempo, più che altro perché suono con Luca e Marcello da diversi anni e non avevamo ancora focalizzato tutta la nostra musica in un disco vero e proprio quindi considero questo come un punto di partenza.
P.P.: Ascoltandolo si sente una grande varietà linguistica, si sente che hai fatto studi classici, ma anche che ascolti musica rock, la cultura latin jazz, quindi mi vengono in mente tre parole che sono: libertà, sincerità e ispirazione. Ti ci riconosci?
C.F.: Sì. Io ti ringrazio di aver sentito questo, mi fa molto piacere. In realtà io sono uno molto curioso, mi piace ascoltare veramente di tutto, è chiaro, quella musica che mi trasmette qualcosa, quindi anche nel mio modo di comporre attingo volontariamente e involontariamente da cose che ho sentito fra le più disparate. Penso che la curiosità sia un fattore fondamentale, o comunque molto importante.
P.P.: Tu e un pentagramma. Qual è la prima cosa che scrivi? Questo per dire: com’è che componi un brano?
C.F.: La prima cosa che scrivo è la chiave… dipende, non ho un metodo preciso. Ultimamente scrivo proprio al pianoforte, nel senso che magari suono e quando trovo una cosa che mi piace la metto su carta. Comunque scrivo a mano e poi ricopio sul computer, cosa che è molto comoda devo dire, perché comunque se devi trasportare o fare le parti per altri musicisti è molto veloce, però la scrittura vera e propria la faccio al pianoforte.
P.P.: Vivere di musica e vivere per la musica a volte sono due cose diverse. Tu ti appresti a una carriera da musicista, quindi due parole sulla situazione musicale in Italia e su quelli che sono i tuoi progetti.
C.F.: In Italia ci sono veramente moltissimi musicisti bravi, la maggior parte dei quali non è conosciuta dai più. Comunque l’Italia ha una forte tradizione musicale da sempre. La situazione musicale in Italia è quella che è. Ci sono sempre meno spazi dove poter fare musica, ci sono sempre meno possibilità. È chiaro che questa è una vita di sacrifici, perché comunque uno si deve anche un po’ barcamenare tra varie cose. Io suono il pianoforte ma compongo anche, faccio musica elettronica al computer, lavoro spesso on line con altri musicisti, magari faccio la pre-produzione di un disco, allora scrivo una cosa al pianoforte e la mando al batterista che registra la batteria e me la rimanda indietro, cioè lavoro anche così, perché comunque ormai con la tecnologia, con i mezzi è molto facile fare musica in casa, cosa che magari prima invece uno doveva investire, spendere soldi per andare in studio. Insegno anche, non tantissimo, ho due ragazzi che mi vengono a trovare una volta al mese a casa, più che altro parliamo. Il lavoro del musicista è tanti lavori messi insieme. Sei un autista, sei uno che spesso e volentieri cambia letto ogni notte, sei sempre in giro, orari strani. Si dice che il musicista dorme la mattina e suona di notte… magari invece si sveglia prestissimo la mattina e non dorme proprio. Quindi sono tanti lavori, poi arrivi sul palco e devi cercare di dimenticare tutto quello che è stata la tua giornata, quello che hai mangiato, la brutta telefonata che hai ricevuto o la bella telefonata. Quindi sono tante cose messe insieme.
P.P.: Un’ultima domanda. Musicalmente hai una meta ideale? Dove ti vedi fra un po’ di tempo? C’è un punto in cui vorresti arrivare?
C.F.: No, non mi vedo fra un po’. Dieci anni fa io non mi sarei visto così, nel senso che non avrei mai pensato dieci anni fa che mi sarebbero potuti piacere i Radiohead per dire… La vita è talmente un susseguirsi… non so dove andrò a sbattere la testa domani, quindi figurati fra dieci anni. È chiaro a me piacerebbe sempre continuare ad avere la possibilità di studiare, perché più si va avanti e più si ha meno tempo di stare proprio al pianoforte fisicamente. Voglio comunque continuare a studiare, cercare di dare sempre il massimo. Dove sarò tra dieci anni non lo so.