
Quali sono i requisiti per definire qualcosa un “mito”? Non è semplice la definizione della parola mito, ma una cosa è certa, un mito agisce sempre sull’immaginario collettivo esercitando un fascino dirompente, qualcosa a metà tra la nostalgia e l’incanto. In questo senso “Kind of Blue”, l’album che Miles Davis diede alla luce per Columbia Records nel 1959 insieme a John Coltrane, Bill Evans, Cannonball Adderley, Jimmy Cobb, Paul Chambers e Wynton Kelly, è davvero un mito che ha proiettato la sua bellezza e la sua estetica molto oltre il recinto del tempo in cui è nato. In una intervista di qualche anno fa per RaiNews, il giornalista, critico musicale e produttore discografico americano Ashley Kahn dichiarò: “L’idea di improvvisare in studio non solo gli assolo, ma di creare in studio tutta la composizione, esisteva già nella musica classica e nella world music e naturalmente in tutta la tradizione del jazz e nelle radici profonde, profondissime radici del blues , che è il cuore, l’anima di “Kind of Blue”. Tutte queste cose si sono riunite in quall’album, ma quello che è veramente incredibile è l’effetto che ha prodotto la lezione di “Kind of Blue” sul jazz modale: suonare sulla stessa scala, su armonie molto semplici per qualcosa come 32 battute, che fu una vera rivoluzione per quell’epoca. Tutta la forza di quell’influenza si è vista dopo 10-15 anni…”
Ed è proprio a questa musica che Ashley Kahn dedicò uno dei suoi libri più importanti: Kind of Blue. Storia e fortuna del capolavoro di Miles Davis, in Italia nella preziosa traduzione di Francesco Martinelli e che Il Saggiatore riporta nelle nostre librerie.
Molto è stato scritto su “Kind of Blue”, ma il volume di Kahn ha la peculiarità di accompagnarci per mano sulla Trentesima Strada, a New York, il 2 marzo 1959, nello studio della Columbia Records dove tutto accadde, dunque nel farsi stesso del mito. L’autore questo percorso lo compie progressivamente, inquadrando la creazione di “Kind of Blue” nel periodo storico e nel particolare momento che il linguaggio del jazz stava attraversando, con un focus particolare, nella prima parte del volume, sulla nascita del sound di Miles Davis nel periodo che va dal 1949 al 1955. Kahn, nella ricerca delle ragioni e delle modalità in cui il mito nasce, torna indietro nel tempo fino a ricostruire una storia fatta di persone, musicisti, tecnici, uffici stampa, e molti altri che hanno contribuito alla genesi di qualcosa che ha superato la prova del tempo e ha abbattuto le barriere tra linguaggi musicali differenti.
La narrazione delle due sessioni di incisione è avvincente e Kahn riesce a creare nel lettore l’illusione di una partecipazione diretta, grazie al voluminoso materiale di cui, per la redazione, è riuscito a prendere visione. L’autore ha avuto accesso infatti ai nastri originali delle sue sessioni ed è persino commovente leggere della sua percezione, di fronte a quel materiale, della sensazione quasi di “aprire una tomba egizia”, qualcosa di sacro e inviolabile che si teme di rovinare con il solo sguardo. E molti sono i documenti rari che Kahn riporta nel libro, come le trascrizioni delle conversazioni incise dagli artisti durante le sessioni, da cui intuiamo le differenti personalità dei musicisti, il metodo di lavoro di Miles Davis, ma ancora le fotografie inedite del tecnico Fred Plaut e molto altro. Non c’è aspetto della creazione e della produzione che Kahn tralasci nella sua narrazione arrivando fino al lancio e alla diffusione di “Kind of Blue” sul mercato.
L’ampia parte finale del volume è dedicata all’eredità di questa musica sulle generazioni future, sulle motivazioni ragionate di un successo che oltrepassa il tempo e la rende, appunto, un mito.
Il linguaggio dello scrittore è agile e snello, lo stile è quello della cronaca, ma è un racconto che nasce da un lungo lavoro di studio sui documenti testuali e sonori che Kahn ha condotto con passione ed amore e proprio questi due aspetti sono nitidamente percepibili.
Ci piace citare, in chiusura, le parole che lo stesso Ashley Kahn scrive nell’Introduzione del libro: ”Se siete già tra gli ammiratori di Kind of Blue forse avrete qualche ricordo associato alla vostra “prima volta”. Altrimenti, chiedete se ne ha qualcuno l’amico che vi ha fatto conoscere il disco. Portate con voi quei ricordi nel mondo in cui stiamo per entrare. Usate questo libro come un’introduzione, una guida all’ascolto, un modo per capire che in quei quaranta minuti di grande jazz c’è molto di più di quanto si riesca a cogliere al primo ascolto. Lasciate che questo libro vi dimostri che spesso le parole sussurrate sono quelle più ricche di significato!”