
Molti hanno reso un tributo ad Antonio Carlos Jobim, O Maestro, il grande musicista brasiliano creatore del genere bossanova e ormai un’icona della musica internazionale, al punto da essere spesso associato a Duke Ellington o a George Gershwin. Come Ellington o Gershwin, infatti, Jobim ha dato un contributo fondamentale alla musica moderna in termini di innovazione e invenzione, ma, nel tempo, le sue composizioni sono divenute così celebri da essere ormai considerate classiche, un punto di riferimento per le generazioni future, un terreno fertile per la creatività musicale. Affrontare la musica di Jobim significa pertanto misurarsi su un terreno attraversato ripetute volte, con il rischio di reiterare canoni codificati dall’uso, con il pericolo di clonare qualcosa che già contiene in sé il dono della perfezione.
Fred Hersch ha deciso di correre questo rischio, primo, fra tanti che hanno reso omaggio a Jobim in varie formazioni strumentali e vocali, a farlo in piano solo, con un’audacia che non delude nei risultati.
Già considerato un outsider della scena jazzistica newyorkese per la sua relativa distanza dalle avanguardie e il suo spiccato romanticismo musicale, Hersch lascia il suo personalissimo imprinting anche sui brani di Jobim: una vena lirica, intensa, appassionata, in cui la musica è sempre emanazione di qualcosa di soggettivo, elaborazione meditata e sentita.
I brani più noti della produzione di Jobim qui hanno la cifra stilistica del codice jazzistico, ma non per questo sono snaturati o stravolti. Hersch mostra un profondo rispetto per la struttura melodica originaria, adottando una varietà di registro modulata sul singolo pezzo, facendo contemporaneamente uso di strutture armoniche e di linee melodiche percepite come flussi di un discorso in costruzione.
Il disco si apre con un delicatissimo “Por toda minha vida”, quasi un accenno, un’apertura al successivo “O Grande Amor”, in cui il pianista esplora le infinite possibilità ritmiche dello strumento e ci restituisce una vibrante bossa, tra intrecci melodici complessi che alla fine lasciano riemergere, intatto, il tema di Jobim. Espressivo, emotivo, poetico, Hersch ci regala una appassionata intro a “Insensatez”, la stessa tensione lirica che anima la meno frequentata “Luiza” e che chiude il disco nella versione quasi crepuscolare di “Corcovado”.
In questo album Fred Hersch è essenziale ma efficace: è il suo disco del ritorno, dopo le vicissitudini personali che ne hanno minato la esistenza. Ma dove finisca la vita personale e dove cominci la musica, questo non è dato saperlo, resta certo che, come scriveva il grande Louis Armstrong, “La musica e la vita sono solo questioni di stile”, e di stile Hersch ne ha da vendere.
