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Filippo Gorini: talento, rigore e curiosità per una vita nella musica

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Filippo Gorini: talento, rigore e curiosità per una vita nella musica

Filippo Gorini_ph Dan Hannen
Filippo Gorini_ph Dan Hannen

È giovane Filippo Gorini, che proprio oggi, 30 giugno, compie 21 anni, eppure ha una maturità artistica e personale che rappresenta una dote rara, un valore prezioso che non passa inosservato nell’ambiente musicale internazionale. Lo confermano i numerosi successi che questo artista ha conseguito in importanti concorsi internazionali, primo fra tutti il prestigioso Concorso “Telekom-Beethoven” di Bonn, che Filippo Gorini ha vinto con voto unanime della giuria e del pubblico, ancora il primo premio al Concorso Neuhaus del Conservatorio di Mosca. Andrei Gavrilov lo ha definito “un musicista con una combinazione di qualità artistiche rare: intelletto, temperamento, ottima memoria, immaginazione vivida e grande controllo.”
Talento dunque, ma anche quell’indispensabile rigore nello studio e quella devozione alla musica indispensabili nel perseguire una carriera artistica a livello professionale e di altissimo livello.
Filippo Gorini si è esibito in numerose e importanti sale da concerto e si è perfezionato con nomi importanti del pianismo internazionale, come A. Jasinski, P. Gililov, A. Gavrilov, A. Lonquich, L. Lortie, B. Lupo, P. Donohoe. Il suo repertorio spazia dal periodo barocco fino alla musica contemporanea, grazie agli insegnamenti ricevuti presso il Conservatorio “G.Donizetti” di Bergamo sotto la guida di Maria Grazia Bellocchio.
Abbiamo intervistato Filippo Gorini e abbiamo scoperto un giovane artista il cui ritratto ha i lineamenti dell’appassionato studioso, una figura in cui il pianismo è voce per esprimere un interesse profondo per tutto quel contesto culturale che intorno alla musica ruota e che in un certo senso ne favorisce la fioritura e l’evoluzione nel tempo, ma anche uno spirito dotato di costruttiva curiosità che non disdegna il linguaggio della contemporaneità.
Vi invitiamo a scoprire i prossimi concerti di Filippo Gorini sul suo sito web, dove potrete trovare anche alcuni video di sue esecuzioni.

Paola Parri: Filippo Gorini: 21 anni il 30 giugno e una carriera di concertismo internazionale già avviata. Ci racconta quando e come il pianoforte è entrato nella sua vita?

Filippo Gorini.: Mio padre, che è un fisico, ha studiato pianoforte da giovane fino ad arrivare al compimento medio, poi ha abbandonato gli studi in Conservatorio per l’Università, ma ha continuato a suonare in casa. Ricordo che nei weekend spesso suonava per me e mio fratello i brani studiati da giovane. Fin da piccoli ascoltavamo, oltre alle canzoncine per bambini, anche musica classica, che dunque è sempre stata in casa. Mio fratello, che ha due anni più di me, ha cominciato a studiare a 6 anni, a prendere lezioni e io l’ho seguito in maniera quasi naturale. Sembrava una cosa scontata che accadesse.

Agli insegnanti ho dato subito l’impressione di un certo talento, ma per me all’inizio la musica era come un gioco, non le dedicavo molto tempo. Quando lo studio diventava noioso magari, da bambino, lo trascuravo un po’. Lo studio non è stato una cosa seria per me almeno fino alle scuole medie, quando avevo 11-12 anni. Allora ho cominciato a intravedere che c’era qualcosa di molto più profondo e di molto più importante per la mia vita nella musica, che non era solo un gioco. Ho avuto questa percezione in particolare quando ho ascoltato per la prima volta delle incisioni degli Improvvisi di Schubert suonati da Brendel e delle Sonate di Beethoven suonate da Kempff. Mi sono innamorato di questa musica quando non ero ancora entrato in Conservatorio e studiavo in una scuola privata. Per due anni ho letto qualsiasi spartito mi capitasse sotto mano, ascoltavo tantissima musica e sempre di più cresceva in me l’amore per questi compositori, per le loro storie, per la musica che avevano composto e questa diventava parte di me.

In quegli anni ho cominciato a partecipare ai primi concorsi e quindi a raccogliere anche i primi premi. A14 anni sono entrato al Conservatorio “Gaetano Donizetti” di Bergamo dove la mia insegnante, Maria Grazia Bellocchio, è stata la più grande fortuna della mia vita, perché mi ha seguito da subito con estrema attenzione, ha capito che meritavo tanto tempo e tanta dedizione e non ha mai risparmiato le sue energie e il suo tempo per aiutarmi ad evolvere, non ha mai risparmiato a me nessuna fatica, non mi ha mai concesso di essere pigro, di essere poco metodico. Sono arrivato da lei che ero un ragazzo di talento, ma molto disorganizzato, costruito da solo in qualche modo e con molti difetti di impostazione. Abbiamo lavorato davvero moltissimo insieme per migliorarmi e farmi diventare poi il pianista che sono ora.

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P.P.: Nel dicembre 2015 lei ha vinto il prestigioso Concorso internazionale “Telekom-Beethoven” di Bonn. In generale com’è la vita di un giovane studente che si accinge a intraprendere una carriera artistica a livello professionale? Come ci si prepara a una simile prova?

F.G.: Direi che è una vita di tanto studio. Si studia tutto il giorno, non necessariamente stando al pianoforte, ma anche leggendo dei testi, analizzando spartiti, ascoltando esecuzioni di grandi interpreti o anche studiando altre materie, leggendo la grande letteratura, andando a delle mostre, però è sempre un’attività fondamentalmente di studio, di lavoro sia su se stessi che sulla propria interiorità, sulla propria personalità, di comprensione della complessità del mondo della cultura di cui siamo eredi e di cui stiamo cercando di diventare testimoni. Naturalmente si passano tantissime ore allo strumento per cercare di possedere l’abilità pratica di realizzare tutte le proprie intenzioni. Questo vuol dire che è una vita piena di sacrifici, perché si ha poco tempo per svolgere altre attività che non siano la musica, non si ha tempo di uscire con gli amici, non si ha tempo di fare le vacanze estive. Per esempio io quest’estate non farò vacanze, non le ho fatte nemmeno l’estate scorsa perché stavo studiando per il concorso. È una vita che non potrebbe sopportare chi non ha un grande amore per la musica e per quello che sta facendo.

Non è semplicemente stare al pianoforte tutto il giorno, ma il pianoforte e la musica diventano il punto focale verso cui ogni mia altra attività converge.

Per quanto riguarda invece il concorso devo dire che ho scelto il Concorso Beethoven perché la musica di Beethoven e Schubert, e in generale la grande scuola tedesca, è il repertorio con cui sento maggiore affinità personale e che ho studiato ed eseguito con maggiore successo e apprezzamenti. Il Concorso Beethoven è proprio dedicato a questo repertorio. L’ho scelto anche perché, nonostante siano tante prove con un vastissimo repertorio, per un totale di 4 ore da presentare, mi sono reso conto che senza studiare appositamente per il concorso avevo già una buona parte del repertorio richiesto. Quindi sembrava che inconsciamente, scegliendo semplicemente per mio gusto, mi fossi preparato già da tempo per questo concorso, senza saperlo. Poi ho realizzato la registrazione video per l’ammissione, con la Sonata Op.110 di Beethoven e il Preludio e fuga in Si bemolle minore dal primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach, e ho atteso i risultati. Sono stato ammesso tra i candidati che effettivamente potevano prendere parte al concorso e da lì ho trascorso 6 mesi a completare la preparazione che di fatto forse in maniera inconscia era cominciata anni prima. Gli ultimi 6 mesi del 2015 sono stati un periodo molto intenso di studio di grande qualità per me, non ho mai reso così tanto come in quel periodo, forse perché studiavo i brani non in fretta, come se fossero per un concerto imminente, bensì con un obiettivo, quello di suonarli perfettamente 6 mesi dopo in concorso.

Quindi ho speso magari tanto tempo anche sulla singola pagina, sul dettaglio, ho studiato a tempi lentissimi per studiare bene gli appoggi, i suoni, i timbri che volevo, ho ascoltato molto anche le registrazioni di altri pianisti per capire come i grandi si fossero rapportati a queste composizioni e ho cercato molto lentamente, ma in maniera costante, di approfondire il pensiero e rendere preciso il gesto. È stato un periodo molto faticoso, ma sicuramente molto gratificante. Le 4 ore di repertorio erano una sfida, non avevo mai avuto così tanto repertorio sotto mano nello stesso momento e a livello qualitativo così alto. Le prove sono state molto concentrate e a causa dell’estrazione del mio turno io ho iniziato la prima prova l’ultimo giorno possibile, essendo concentrato in 3 giorni, ho fatto un giorno di prova, uno di studio, uno di prova, uno di studio e così via.

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P.P.: Il suo repertorio è molto vasto, spazia dal periodo barocco alla musica contemporanea. C’è un particolare interesse da parte sua verso la musica contemporanea?

F.G.: Sicuramente ho ereditato dalla mia insegnante un’attenzione particolare per la musica contemporanea, che io credo sia davvero irrinunciabile per un artista curioso, nel senso che è un’espressione estremamente sincera ed estremamente valida di quella che è la nostra contemporaneità. Non riuscirei a immaginarmi di suonare soltanto una musica del passato senza rapportarla anche alla musica del presente. La mia insegnante è specializzata nel repertorio contemporaneo e attraverso lei ho avuto modo di conoscere da vicino e di ascoltare tanti concerti e anche venire a contatto con alcuni compositori di spicco del momento. Non mi considero uno specialista di musica contemporanea e non è questo che cerco nella mia vita, ma mi piace molto affiancare il repertorio tradizionale al repertorio contemporaneo, creare un dialogo, una continuità e quindi un discorso che non rischi mai di essere museale, piuttosto che sia proiettato nel futuro, che generi qualcosa di nuovo.

P.P.: Qualcosa che non ha ancora interpretato e che rappresenta per lei una sfida per il futuro?

F.G.: Ho tantissimi obiettivi. Sicuramente mi piacerebbe studiare l’Arte della Fuga integralmente, concludere l’integrale delle Sonate di Beethoven. Mi piacerebbe inoltre dare più spazio a Schubert nel mio repertorio studiando le grandi Sonate. Nell’ambito dei concerti mi piacerebbe suonare i due concerti di Brahms.

P.P.: Come affronta lo studio e l’interpretazione di una partitura? La partitura è testo sacro, punto di partenza o cosa altro? Ci può illustrare in breve il suo concetto di interpretazione?

F.G.: Quando suoniamo la grande musica del passato dobbiamo tenere sempre presente che questi compositori avevano la piena consapevolezza di quanto scrivevano, di quello che volevano realizzare. Ciò che loro scrivono è sempre motivato, sempre voluto, ogni segno non è un incidente, non è segno di qualcosa più o meno importante, bensì è qualcosa da esaminare, da comprendere e cercare di far proprio. Una volta analizzati e compresi bene tutti gli elementi che ci ha lasciato il compositore sulla partitura, entro questi elementi è possibile realizzare una infinità di possibilità interpretative. Se io realizzo una stessa forcella di crescendo e la realizza la mia insegnante e la realizza Pollini, tutti e tre stiamo cercando di realizzare lo stesso segno che abbiamo visto e lo rendiamo in tre modi diversi e questo deriva dalla nostra individualità, dalla nostra esperienza, dalla nostra mente e da tutta quella che è stata la nostra evoluzione artistica. La partitura è quindi per me un testamento sì sacro dei grandi compositori, è quello che ci hanno lasciato e che ci consente di rivivere le loro intenzioni musicali, ma per farle rivivere dalla partitura e renderle concrete, tradurle in suono è necessario il nostro intervento che sicuramente apporta qualcosa che ci appartiene, che è nostro, ma che deve essere il più possibile fedele al compositore.

P.P.: L’improvvisazione era pratica assai diffusa tra gli stessi compositori di cui oggi eseguiamo le partiture con estremo rigore. Cosa pensa di questa pratica? Si è mai cimentato in questo tipo di linguaggio?

F.G.: No, non mi sono mai cimentato nell’improvvisazione, almeno non in concerto o in situazioni pubbliche. Può capitare magari a casa da solo che qualche nota io la improvvisi, così come attività stimolante e diversa dallo studio abituale. Penso che l’improvvisazione come forma d’arte abbia una sua dignità e che anzi sia una pratica molto difficile che solo pochi grandi riescono a realizzare. Bisogna essere dei grandi artisti.

Se invece si parla di improvvisare sulle note di Bach o alterare parzialmente la partitura, la cosa si fa difficile. Ricercare in maniera filologica i documenti dell’epoca per capire come venivano fiorite, come venivano alterate nel momento della pratica esecutiva le partiture e ricreare quel tipo di intervento restando fedeli alle intenzioni del compositore è in fin dei conti ricercare il modo che il compositore aveva di leggere una partitura e rielaborarla, ma non è necessariamente una pratica improvvisativa, è in realtà un’attività semmai molto informata, molto studiata che richiede moltissimi anni di specializzazione e di studio dei testi dell’epoca e dei trattati ad esempio di metodologia clavicembalistica.

Se invece uno senza questa preparazione si avvicina a una sonata di Beethoven e si permette di storpiarla in qualche modo senza un intento di una certa purezza artistica secondo me in questo caso è veramente un crimine. Difficile tracciare così in astratto un discrimine, diciamo che io tenderei a premiare sempre la sincerità e la conoscenza che stanno dietro a un intervento artistico. Un compositore contemporaneo che ama la musica di Beethoven e realizza oggi una trascrizione di una sua opera fa un certo tipo di operazione, un pianista che invece non ha una conoscenza approfondita e che per suo narcisismo si mette a modificare una composizione per me ha un atteggiamento infantile.

P.P.: Relativamente ai grandi interpreti del passato, ha un modello, uno spirito guida, qualcuno che sia perenne fonte di ispirazione ogni volta che si accosta a una nuova composizione?

F.G.: Sono diversi gli interpreti del passato che mi ispirano e che cerco di ascoltare molto. Oggi faccio fatica a individuare pochi nomi. Però sicuramente dei riferimenti costanti li individuerei in Kempff, Fischer, in Richter, Gilels e tra i viventi Pollini, Zimerman e Brendel. Alcuni interpreti possono affascinare per la capacità di suonare in maniera molto personale. Kempff ad esempio ha la capacità di cantare in maniera semplicissima le parti interne quando suona con tutti i pollici legatissimi, cosa che manca a tantissimi grandi pianisti, ha una ricchezza timbrica, una bellezza sonora che ogni volta mi stupisce. Fischer per me ha una capacità di far cantare il pianoforte sulle note lunghe che è incredibile, un suono di una naturalezza incomparabile, è come una voce che riesce a sostenere l’espressività su una nota ferma che è una caratteristica che se non l’avessi sentita la reputerei impossibile da ottenere su un pianoforte. Inoltre sono tutti pianisti che hanno avuto un loro pensiero, una loro vita artistica assolutamente affascinante. Cerco di avvicinarmi ai loro modi di pensare senza copiare nessuno, semplicemente per ammirarli. Di solito ascolto tante registrazioni, ma quando comincio a studiare davvero mi allontano dalle registrazioni che conosco e cerco a quel punto di sviluppare un mio pensiero che gode delle suggestioni che conosco ma che spero possa restare mio. Ignorare i grandi pianisti sarebbe un peccato.

P.P.: Parliamo del momento del concerto. Un rito. C’è ansia? Come lo affronta?

F.G.: Io avrei ansia solo se non avessi la coscienza a posto, se non avessi studiato come si deve, perché comunque sono una persona abbastanza controllata , però sicuramente una certa tensione c’è, non in senso muscolare, bensì in funzione positiva, come uno stare in uno stato di costante allerta che rende molto più acuti i sensi e l’intelligenza nel momento del concerto perché si capisce l’importanza del momento e c’è un’energia che io sento che si libera e a cui non avrei possibilità di accedere quando non suono in concerto.

Questa energia diventa una forza in più che porta il pubblico all’attenzione, che rende molto più forte e incisivo il messaggio che si cerca di restituire e molto più avvincente suonare in pubblico rispetto al suonare da soli a casa.

Per affrontare bene un concerto non credo ci siano particolari trucchi. Bisogna aver studiato molto bene sia da un punto di vista tecnico che musicale ogni dettaglio, ogni sfumatura che si vuole ricreare, perché qualsiasi cosa che non sia ben definita nel momento dello studio risulterà poco efficace se non addirittura dispersiva nel momento del concerto quando uno non ha più la sicurezza dell’essere a casa propria. Per uno che ha studiato e creato la sua interpretazione il momento del concerto è un momento in cui ci si lascia liberi, non si pensa più in maniera meticolosa a tutto, altrimenti si rischierebbe di restituire qualcosa di troppo rigido. In quel momento piuttosto tutti gli elementi studiati vengono riassorbiti in modo naturale e restituiti in quell’esperienza unica e irripetibile che è il concerto, che io personalmente adoro, e che è ciò che più mi motiva nel proseguire la mia attività artistica.

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P.P.: Che ruolo ha il pubblico?

F.G.: Il pubblico è fondamentale e credo che sia la ragione per cui noi suoniamo. Io suono per trasmettere ad altri quell’amore per la musica di cui parlavamo prima. Io voglio trasmettere tutto lo stupore e tutta l’ammirazione che ho per la bellezza creata da un compositore, per quell’opera che a me personalmente tocca l’anima e che desidero tocchi l’anima anche di altri che non hanno la possibilità di suonarla.

Nei confronti del pubblico io per esempio nutro una grandissima fiducia, nel senso che non credo che il pubblico sia incapace di apprezzare certi repertori più complessi, che sia poco motivato, che sia attento solo ai grandi nomi creati dai mass media. Io credo che ci siano moltissime persone che hanno il desiderio di essere colpite da qualcosa di bello e che sono molto aperte a qualsiasi cosa noi suoniamo per loro. Tutte le volte in cui mi sono spinto a fare qualcosa che molti mi sconsigliavano, ad esempio programmi tacciati di un eccessivo intellettualismo, sono sempre stato ripagato dal pubblico. Non credo sia possibile raggiungere questo risultato credendo di suonare solo per se stessi, è un modo di concepire l’arte che rimane egoistico e in qualche modo non è fecondo, non genera nulla. Io cerco di trasmettere ciò che a me sta cuore agli altri.

La musica è una delle forme di linguaggio più belle che l’uomo sia stato in grado di creare e serve per comunicare qualcosa ad altri uomini.

P.P.: Oggi il livello tecnico e artistico del pianismo internazionale si è notevolmente elevato. Sono numerosi gli artisti eccellenti nel panorama mondiale. Mentre in passato l’eccellenza era fenomeno raro e unico. Come ritiene si possa emergere in questo contesto?

F.G.: Se avessi la risposta sarei già un pianista molto famoso! Scherzi a parte, se restringo il campo e penso a un pianista che studia in Italia, credo che, rispetto a pianisti che studiano in altri Paesi, può godere di ciò che di unico possediamo. In Italia abbiamo un’enorme risorsa culturale che non esiste in nessuna altraparte del mondo e se il nostro modo di studiare, il nostro modo di formare la nostra personalità artistica escludesse lo studio di cose importanti come la storia dell’arte italiana o la nostra grande letteratura, non ci potremmo veramente distinguere. Sui grandi numeri noi saremmo una minoranza e cercando di ricreare lo stesso tipo di esperienza di artisti di altri paesi l’artista che emerge sarebbe probabilmente proveniente da un altro Stato. Quello che può dare vita a una scuola pianistica “italiana” è la consapevolezza della nostra cultura, che è il nostro modo di vivere, il nostro modo di pensare, elementi testimoniati nella loro forma più elevata da tutta la nostra arte del passato e contemporanea. Anche solo tra i compositori italiani contemporanei ce ne sono tantissimi di livello elevato sul panorama internazionale. Quindi non c’è una ricetta segreta, ma mi sentirei di investire molto in una formazione a tutto tondo e non solo una specializzazione nel senso più restrittivo del termine.

Filippo Gorini_ph Tom McKenzie
Filippo Gorini_ph Tom McKenzie

P.P.: Oggi la musica viene comunicata attraverso canali un tempo inesistenti. Internet e i suoi canali rappresentano ormai un grande veicolo di diffusione, con tutte le criticità e i vantaggi del caso. Ferma restando l’unicità dell’esperienza della musica fruita dal vivo, cosa ne pensa?

F.G.: Sicuramente i nuovi mezzi tecnologici di cui la nostra società dispone sono una benedizione, sono potentissimi e nel passato non si riuscivano nemmeno a immaginare. Bisogna riuscire, secondo me, a trovare un modo di utilizzarli che aiuti a portare le persone ai concerti. La possibilità di accedere in qualsiasi momento a registrazioni di tutti i tipi con facilità è una cosa bellissima che cambia il nostro modo di ascoltare e ci facilità nella conoscenza di ciò che non conosciamo, nell’avvicinamento. Il rischio è che questi mezzi diventino un surrogato del concerto dal vivo che per qualità del suono, per qualità timbrica, per il fatto di essere di fronte alla presenza viva di un artista, per la sua irripetibilità e anche per le suggestioni che si creano nel momento è secondo me l’unico vero modo di partecipare fino in fondo all’esperienza musicale.

Detto questo io sono aperto a tutti i possibili sfruttamenti della tecnologia nella diffusione della musica classica, secondo me ci vorrebbe più attenzione a unirli a un supporto educativo che faciliti una riflessione più profonda su quello che si ascolta e sul perché vale la pena di recarsi a un concerto dal vivo, altrimenti si rischia una diffusione di massa del prodotto non accompagnata da una diffusione della sua cultura e della sua comprensione. Questo è il grosso scarto che c’è oggi, che c’è il più grosso consumo di musica di tutta la storia dell’umanità e che è l’epoca in cui se ne ha forse la minore consapevolezza.

P.P.: Quali sono i suoi impegni futuri? Ha progetti particolari?

F.G.: Avrò molti impegni per i prossimi mesi. I più importanti sono il 28 agosto un debutto al Konzerthaus di Berlino in cui suonerò le Variazioni sopra un tema di Diabelli di Beethoven, che sono state il mio cavallo di battaglia, poi ho un appuntamento importante al Beethovenfest di Bonn il 21 settembre dove invece suonerò le Sonate Op.90 e Op.110 di Beethoven, la seconda Sonata di Sciarrino e i Preludi di Chopin, poi ho l’esecuzione del terzo concerto di Beethoven a Leverkusen il 25 settembre, il 1 ottobre debutto in recital al Gewandhaus di Lipsia dove suonerò le Notaciones di Boulez, le Fantasie Op.116 di Brahms e le Diabelli, il 2 ottobre devo suonare al Castello di Weimar e a novembre ho da suonare il concerto di Tchaikovsky in Lichtenstein e in Svizzera e, molto importante, per l’Italia il 21 febbraio suonerò alla Società del Quartetto di Milano. Questa è forse la data più importante che ho in calendario e dove suonerò l’Op.110 di Beethoven, Fantasie Op.116 di Brahms e i Preludi di Chopin.

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