Andante teneramente
Soy un cobarde. Soy un triste. Nada
podrá justificar esa osadía
de cantar la magnífica alegría
-fuego y cristal- de tu alma enamorada.
J.L. Borges, “A Johannes Brahms”
Ad essere sinceri, i miei primi approcci con la musica brahmsiana non furono dei più immediati. I contrasti netti, i rilievi fortemente sbalzati delle architetture beethoveniane erano qualcosa di molto più facilmente assimilabile da chi come me era nato e cresciuto nella luce forte dalle ombre profonde del nostro Sud; per Brahms fu necessario prima capire che era possibile un’altra luce: opalescente, smorzata, striata di brume. Che accanto alla luce di Caravaggio poteva esserci anche quella di Vermeer. Da un certo punto di vista non è una forzatura affermare che – molto prima di avere la possibilità di visitare certe zone del Nord Europa – ne conoscevo già i colori grazie alla musica di Brahms.
Superato questo scoglio mi si aprì il vasto mondo delle grandi composizioni sinfoniche e sinfonico-corali, dalle quattro sinfonie ai concerti al Requiem Tedesco. Opere di quello che con felicissima espressione Massimo Mila ha definito il “Brahms dei ghiacciai”, tutte innervate da una sotterranea tensione che a quindici o sedici anni intuivo ma non riuscivo a spiegarmi compiutamente: solo in seguito compresi questo fondo di antinomia fra l’altezza infinita degli ideali proclamati e il senso della propria personale inadeguatezza, questo attrito fra come si è e come si pensa di dover essere, questa contrapposizione fra le logiche stringenti, impassibilii e atemporali della forma e le necessità brucianti del contenuto.
Col misto di inesperienza e presunzione che è tipico della prima giovinezza pensavo di aver definitivamente incasellato Brahms in questa linea di intersezione tra volontà di epica e desiderio di elegia, ma qualche anno dopo la vita si prese la briga di smentirmi facendomi scoprire aspetti di Brahms fino a quel momento insospettati.
Successe che, più o meno sul principio degli anni ’90, rimasi affascinato dalla figura artistica e intellettuale di Glenn Gould e cominciai ad ascoltare e leggere di lui e su di lui tutto quanto potevo. Esaurita l’obbligatoria fase bachiana (tra Variazioni Goldberg, Clavicembalo ben temperato, Suite inglesi e francesi, Partite, Invenzioni e chi più ne ha più ne metta) e non avendo ancora saziato la mia bulimia gouldiana fu giocoforza esplorare altri territori. Fra di essi scoprii una selezione degli ultimi Klavierstücke brahmsiani che mi incuriosì anche perché il puritanissimo Gould definiva queste sue letture con un termine per lui affatto inconsueto: “sexy”.
Si tratta in effetti di interpretazioni in cui spira un’aura di affettuosità complice quale raramente Gould ci/si concede. E a me piace pensare che si tratti di un’adesione – non sapremo mai quanto istintiva e quanto razionalmente meditata – al carattere tutto particolare e nuovo di questi pezzi. E’ una novità che si coglie anche attraverso particolari apparentemente secondari, quali ad esempio le indicazioni di tempo. Finita la stagione dei Maestoso (Concerto per pianoforte e orchestra n. 1, I movimento), dei beethoveniani Allegro con brio (sinfonia n. 3, I movimento) e degli Allegro energico e passionato (sinfonia n. 4, IV movimento) arriva la fase di indicazioni dalla straniante dolcezza: Andante con grazia ed intimissimo sentimento (intermezzo op. 116 n. 5), Grazioso e giocoso (Intermezzo op. 119 n. 3) o – appunto – l’ Andante teneramente dell’op. 118 n. 2.
E’ proprio in quest’ultimo intermezzo che secondo me è possibile cogliere perfettamente gli esiti di questa estrema stagione brahmsiana. Scritto nella luminosa, calda, pastosa tonalità di la maggiore (la stessa di un altro capolavoro di commiato, il concerto per clarinetto K622 di Mozart) questo brano ci rivela un uomo ormai arrivato al di là delle lotte, dei dolori, dei picchi troppo intensi della passione. E soprattutto ci rivela un uomo che si sente finalmente in diritto di cantare ciò che il cuore gli detta senza preoccuparsi dell’adesione a principi formali o a canoni estetici prefissati.
E’ come se nella disputa quattro-cinquecentesca tra pittura toscana e pittura veneta un Masaccio si fosse abbandonato all’incanto dello sfumato e della luce calda degli ultimi capolavori di Tiziano.
Da qui il senso di intima familiarità che pervade tutta la composizione, di festevolezza intima e raccolta, di una gioia che se a tratti appare velata è solo per la foschia che a volte si interpone tra noi e le cose quando le guardiamo da lontano.
Giunto, se non fisicamente almeno mentalmente, al termine di una vita e di una carriera compositiva fecondissima in cui dai piccoli gruppi cameristici alla grande orchestra, dalle voci solistiche ai grandi complessi corali tutto è stato provato e sperimentato, Brahms si volge indietro al pianoforte della sua giovinezza e ad esso consegna il suo messaggio finale. Che è un messaggio di gioia e libertà e risulta tanto più convincente (e commovente) quanto più si affida al sussurro e alla mezza voce.
Spartito